Circola voce (fonte La Repubblica)
che 1.300.000 persone in Italia, “direttamente o indirettamente, vivono
di politica”. Tale esercito, formato da ministri, parlamentari,
assessori, consulenti, consiglieri, costerebbe circa 24 miliardi l’anno.
Se così fosse il reddito medio lordo di ognuna delle 1,3 milioni di
persone ammonterebbe a 1500 euro; un compenso da fame e sicuramente non
adeguato alle aspettative di un individuo che si occupa di politica. Non
credo che tanti aspirerebbero a simile occupazione se la remunerazione
fosse così modesta.
Tra l’altro considerando che parlamentari, deputati regionali, sindaci maggiori,
percepiscono redditi intorno ai 10.000 euro netti, si capisce come la
media non possa essere 1500 euro lordi. Prendendo come base un’entrata
che consenta una vita appena dignitosa ad una famiglia di 4 persone
(3000 euro mensili) si parla già di redditi lordi per 50.000 euro annui,
che moltiplicati per 1.300.000 persone, assommano a sessantacinque
miliardi. Un’enormità, il 25% dei consumi pubblici netti. Ma se lo Stato
ne quantifica 24 chi sborsa gli altri 41? C’è da sbizzarrirsi.
Probabilmente imprenditori e privati che fanno affari con gli enti
pubblici, contribuiscono (loro malgrado) a questa spesa. Non è per
niente difficile intuire criteri e modalità di riscossione; per dirla
con un eufemismo, si tratta di una ta…ssa occulta di 700 euro pro capite
oltre all’importo pagato ufficialmente dallo Stato (comunque dai
cittadini).
Secondo “Ballarò” i 16 palazzi romani del parlamento costano, per il loro mantenimento, 2 miliardi di euro l’anno. Supponendo che ogni regione spenda mediamente, per gli edifici, la metà del costo degli stabili capitolini, si arriva a 20 miliardi, che sommati ai 65 già conteggiati fanno 85 miliardi. Ci sarebbe ancora da aggiungere il rimborso elettorale (un miliardo per politiche, regionali ed europee) e i finanziamenti ai giornali di partito (50 milioni l’anno). Ottantasei miliardi. Un importo maggiore di quello stanziato per gli interessi; la politica ci costa più del debito pubblico (paghiamo ogni anno 1400 euro per le attività di governo e 1100 euro per gli interessi sul debito). Circa un terzo dei consumi pubblici netti sono da addebitare al costo della politica; o meglio, 1.300.000 persone assorbono le risorse finanziarie di 20 milioni di cittadini.
Intanto si assume un super tecnico per praticare dei tagli alla spesa pubblica; per la “revisione dei flussi della spesa pubblica ai fini della loro riduzione”. Ma lo Stato non è una Parmalat qualsiasi, esso “è una comunità, organizzata stabilmente su un territorio, il cui fine è quello di determinare e di soddisfare i bisogni collettivi di coloro che ne fanno parte”. La giustizia, la difesa, l’istruzione, sono esempi di bisogni collettivi. Presumibilmente le risorse destinate a coprire tali servizi sono già tra le minori in Europa ed è forse anche questa la causa dei modesti e inappaganti risultati. Togliere 4,2 miliardi ai consumi pubblici non sarebbe poi un gran risparmio e offriremmo un motivo in più per giustificare un mancato miglioramento dei servizi offerti. Per un’impresa la riduzione dei costi è un vantaggio economico che si traduce sempre in un’opportunità; un ente pubblico, invece, non persegue l’obiettivo di massimizzare i profitti, bensì elevare la qualità e la quantità dei servizi offerti (il benessere dei cittadini). Per lo Stato, più che di tagli, si dovrebbe parlare di ottimizzazione, ossia, visto che non abbiamo risorse aggiuntive da destinare al miglioramento dei servizi, aumentiamone l’efficacia e l’efficienza.
Non sarebbe il caso di tagliare l’esorbitante costo della politica? Perché il governo non ne fa una priorità? Nessuno Stato può permettersi un cittadino ogni 46 abitanti che vive di politica, riducendo i rappresentanti ad un numero ragionevole e congruo risparmieremmo, senza dover “aggredire” la spesa pubblica, un bel mucchio di miliardi da destinare, magari, alla ripresa economica.
In macchina, l’altro ieri, di ritorno dagli acquisti settimanali in un supermercato, parlando dei prodotti rincarati, la conversazione col passeggero è scivolata sui ventilati tagli. Il dialogo, dapprima sfumato e salottiero, si è trasformato in un apprensivo monologo. Mia moglie, in silenzio, mi ha attentamente ascoltato e quando, con una smorfia di rassegnazione, le ho trasmesso le mie perplessità sugli interventi di revisione e riduzione della spesa, senza minimamente scomporsi e con un tono preoccupato ella mi ha detto: “Monti avrebbe fatto meglio ad affidare l’incarico a quattro oculate massaie”. Battisti mi ha salvato; l’emozione che suscita l’ascolto di “Prendila così” è al di sopra di uno scoramento.
Salvatore Carrano 30 maggio 2012