Questo esecutivo sembrerebbe, nella sostanza, incongruente e contraddittorio, in quanto: per aumentare l’occupazione, propone una legge che avalli i licenziamenti facili; persegue come obiettivo primario la crescita e lo sviluppo, ma fa calare i consumi e genera recessione; vuole salvare il Paese dal precipizio e intanto getta nella disperazione intere famiglie provocando un’impennata dei suicidi; piange per i più deboli, ma difende e tutela solo i poteri forti; assume un super tecnico per ridurre sette miliardi di spesa e ne incrementa almeno 30 di interessi sul debito; sventola riconoscimenti internazionali, ma non riesce a farsi accettare la benché minima richiesta di aiuto dall’Europa; aumenta le tasse e determina una diminuzione delle entrate fiscali; predica l’equità e fa registrare una crescita, anche spropositata, del divario tra ricchi e poveri.

Dando per scontato che i ministri non siano degli incapaci e degli sprovveduti, come mai questo governo otterrebbe l’esatto contrario di ciò che si prefigge? L’unica spiegazione possibile è la mistificazione degli obiettivi, ossia “far credere una cosa per un’altra” e, quindi,  propagandare propositi diversi da quelli che in realtà l’esecutivo persegue. Inoltre, avverto la netta sensazione che lo spauracchio di un devastante default, che potrebbe farci piombare nella miseria e nella disperazione, venga usato per legittimare gli stessi governanti che paventano tale pericolo. Se così fosse, gli sforzi dell’esecutivo sarebbero incentrati sul permanere della minaccia e non sul suo allontanamento; una volta sventato il pericolo, infatti, una siffatta compagine non avrebbe più motivo di esistere.

Ma allora quali sono i reali intenti di questo governo? E quale vantaggio ne trarrebbe l’esecutivo dal permanere della minaccia default? Le due cose sono strettamente legate e tra di loro combinate. La minaccia serve a giustificare le gravose manovre a danno delle fasce più deboli e a dare un senso allo stesso governo; gli obiettivi – quelli autentici – subdolamente motivati dall’emergenza, coincidono perfettamente con i  risultati raggiunti.

La riforma delle pensioni, le modifiche all’art. 18, i tagli alla spesa, l’aumento dell’imposizione fiscale, perseguono due precisi scopi: “un abbassamento generalizzato delle tutele” e un finalizzato impoverimento delle famiglie. Proprio quello che si sta verificando ed esattamente quanto di effettivo l’attuale esecutivo si prefigge. Appare ovvio, in tal caso, che il governo stia procedendo bene, anzi benissimo; salvaguarda diligentemente gli interessi dei poteri forti e riconsegna progressivamente ai datori di lavoro il maggior numero possibile delle tutele finora concesse ai dipendenti.

Per carità, non c’è da scandalizzarsi, a ben riflettere è un operato prevedibile ed è probabilmente, almeno in Italia, l’unica soluzione possibile volendo preservare uno stato di impostazione capitalistica. Ed infatti un sistema improntato sul libero mercato, in fase di saturazione della domanda, ha necessità di ridurre drasticamente la produzione e nello stesso tempo  deve liberarsi dei lavoratori in eccesso. Quando i consumi saranno calati al minimo possibile, la domanda ricomincerà a crescere, aumenterà la produzione e le imprese riprenderanno ad assumere a condizioni più vantaggiose. Nel frattempo, con la recessione in corso, i profitti del capitale deriveranno dai prestiti concessi agli stati indebitati (nel nostro caso anche dagli attacchi speculativi sui tassi di interesse) e dalla delocalizzazione delle imprese.

Verrebbe da obiettare come mai la crisi in Italia è drammatica e in Germania appena percettibile, o comunque sopportabile?

Le crisi dei sistemi capitalistici possono essere paragonate alle influenze stagionali. Se colpiscono individui sani, ben curati o vaccinati, il disturbo si riduce, senza conseguenze, a pochi giorni di malessere; quando, invece, ad essere contagiate sono delle persone già affette da gravi patologie, una banale influenza potrebbe produrre allarmanti complicazioni. La politica e i governi sono lo stato di salute di una nazione. L’immobilismo e l’astenia del Parlamento italiano sono ben noti; il governo eletto, per manifesta incapacità ad affrontare la crisi, a suo tempo, ha addirittura rassegnato le dimissioni.

Inoltre, la storia ci insegna che, per uscire da una crisi economica, sono possibili tre alternative. La prima, di natura politica, media il benessere sociale con le esigenze delle imprese. Tale soluzione presuppone un governo forte, responsabile, autorevole e decisionista; richiede tempi brevi, difficilmente crea conflitti e provoca lievi disagi economici ai cittadini.

La seconda alternativa consiste nel conferire il compito di risolvere la crisi agli stessi poteri che l’hanno provocata. È una soluzione piuttosto squilibrata a favore delle classi dominanti; determina un graduale impoverimento delle famiglie, innesca un calo nei consumi, causa un regresso delle conquiste sociali e, in caso di eccessiva durata, esaspera i contrasti tra gruppi di interesse. La gestione dell’emergenza è affidata ad esperti non politici che operano in simbiosi con il Parlamento dal quale ricevono appoggio in cambio della salvaguardia dei benefici.

La terza possibilità cova, balugina, esplode; arriva quando arriva. Non richiede incarichi né strategie, si annuncia con la disobbedienza, trova alimento nella rabbia e si esaurisce con l’abbattimento del dominio. Questa evenienza produce gravi disordini, può sfociare nella violenza, genera un vuoto di potere e non offre garanzie, almeno nel breve periodo, di miglioramento del benessere sociale.

La prima alternativa, essendo il governo precedente in difetto dei requisiti necessari, è miseramente fallita, non poche difficoltà si incontrano con la seconda e personalmente non me la sento di affrontare la terza.

Salvatore Carrano 28 giugno 2012