Stabilire a chi sia convenuta l’unità d’Italia, è un’enfatizzazione delle diversità di vedute; accertare le cause del mancato sviluppo del Meridione, contribuirebbe a disegnare la soluzione del problema; puntare sullo sviluppo del Mezzogiorno, è la nostra grande opportunità.
La “questione meridionale” è nata con l’unità d’Italia. Difatti, già nel 1873 un deputato, in una seduta del Parlamento, dichiarò che lo Stato italiano dall’unificazione non si era minimamente occupato di aiutare il Sud dell’Italia. Il parlamentare aveva pienamente ragione perché gli allora governanti, alle prese con le casse completamente vuote a causa delle guerre, erano intenti piuttosto a opprimere i cittadini con nuovi ed esosi tributi (tra cui l’odiosa tassa sul macinato). L’inasprimento dell’imposizione fiscale scatenò rabbiose rivolte popolari e acutizzò il fenomeno del brigantaggio. Lo Stato rispose autoritariamente, con rigida intransigenza, e l’ostilità del clero nei confronti del nuovo regno, non contribuì di certo a mitigare le spietate misure repressive affidate all’esercito. Nessun aiuto alle popolazioni meridionali, solo dominio. Massicce emigrazioni, guerre e soprattutto tanta miseria segnarono il Sud nei decenni successivi all’unificazione.
Bisognerà attendere l’immediato secondo dopoguerra perché lo Stato, ormai repubblicano, ammettesse senza mezzi termini l’esistenza di una “questione meridionale”. Nel 1950 con la riforma fondiaria e l’istituzione della Cassa del Mezzogiorno, i governanti puntarono concretamente al risanamento del Sud. Immancabilmente, però, a ogni valutazione consuntiva, delusi dai risultati, non si poteva che constatare il fallimento della politica meridionalista.
Ci si attendeva un rapido ed esteso sviluppo industriale e invece circa metà della forza lavoro era ancora impegnata in un’agricoltura primitiva, arretrata e fonte di un reddito ai limiti della sussistenza. Le industrie, per la maggior parte a basso tasso di sviluppo, scarsamente automatizzate e con personale poco qualificato, garantivano limitata produttività e redditi modesti (ben al di sotto della media europea). In definitiva nel Sud si registrava una sotto-occupazione e, quindi, un sottosviluppo nonostante gli sforzi governativi tesi alla creazione di un ambiente “favorevole all’industrializzazione” (creazione di infrastrutture, sovvenzioni, incentivi). Addetti e osservatori si chiedevano, con vivo stupore, come mai dei provvedimenti, basati sulle più recenti teorie di sviluppo, avessero prodotto risultati così sconfortanti. Fiorirono le indagini e le interpretazioni. Alcuni studiosi ritenevano che la situazione ereditata fosse talmente grave che, arrivarne a capo in pochi decenni, rientrasse tra le imprese impossibili. Ricercatori più antropologici sostenevano che l’indolenza, la povertà e le inesistenti attitudini imprenditoriali dei meridionali avessero impedito lo sviluppo della regione. Molti pensavano che l’eccessiva presenza dello Stato imprenditore (IRI ed ENI) avesse inibito o scoraggiato la nascita spontanea delle aziende private. C’era chi asseriva che la “questione meridionale” in realtà fosse un problema nazionale e trattarlo come uno specifico caso disgiunto avrebbe inciso negativamente sull’esito degli interventi per il rilancio del Sud. Sicuramente ognuna delle analisi conteneva almeno un pizzico di verità; prendendole tutte in debita considerazione avrebbe, probabilmente, aumentato le possibilità di successo dei provvedimenti in favore del Mezzogiorno. Perché allora non si è tenuto conto delle qualificate osservazioni di tanti studiosi che si sono occupati del risanamento (mancato) del Meridione? Viene da chiedersi: si voleva realmente lo sviluppo delle aree depresse? E se sì fino a che punto?
Le parole di J. Robinson possono venirci in aiuto e fornirci qualche prezioso spunto di riflessione.
“Le economie sottosviluppate sono quelle che sono insoddisfatte della loro attuale situazione economica, e vogliono svilupparsi (…..) la differenza tra economie sviluppate e quelle sottosviluppate deve essere definita in termini politici: sono sottosviluppate quelle economie nelle quali si considera necessario accelerare il saggio di sviluppo; e ciò comporta l’aumento del rapporto tra investimenti e consumo. Nelle economie sviluppate il saggio di accumulazione esistente è considerato adeguato, e non v’è particolare premura di accrescerlo”. La differenza tra economie sviluppate e quelle sottosviluppate definita dai politici italiani ha generato un’Italia a due velocità, squilibrata, discorde, in difficoltà, disgregata; persino “reciprocamente avversa”. Non converrebbe prendere coscienza che il Sud è sottosviluppato e, quindi, “considerare necessario accelerare il saggio di sviluppo che comporterebbe l’aumento del rapporto tra investimenti e consumo”? Sarebbe la nostra grande opportunità: il rilancio del Mezzogiorno; l’imperdibile e favorevole occasione che darebbe il necessario impulso per la ripresa della nostra recessiva economia. Promuovendo a determinate condizioni il risanamento del Meridione, otterremmo in breve tempo la tanto sospirata crescita (solo quella indispensabile per raggiungere la prosperità) che ci consentirebbe di superare, onorevolmente e senza dissanguarci, questa avvilente crisi.
Penso di avere già definito l’idea e potrei, sin da ora, argomentare l’opportunità prospettata, tuttavia, a essere almeno perspicuo, verrei a dilungarmi troppo. Per tale ragione, ritengo sia opportuno esporre separatamente la parte conclusiva di questo lavoro.
Salvatore Carrano
24 luglio 2012