Se venisse proposto di barattare tutte le festività infrasettimanali con il solo “Tax freedom day” da celebrare entro fine gennaio, non si potrebbe avere la minima esitazione ad accettare lo scambio. Come resistere a una così vantaggiosa offerta che, con la sola rinuncia a pochi giorni festivi, consentirebbe di avere almeno cinque mesi di benefici fiscali? Non è difficile immaginare con quale sollevato umore ci si recherebbe al lavoro il primo febbraio sapendo di aver già assolto tutti gli obblighi tributari dell’intero anno. Purtroppo è solo una chimera, non potrà mai verificarsi che uno stato limiti il prelievo fiscale all’8,33%. Gli ultimi studi, compiuti da istituti specializzati nel settore, denunciano infatti una pressione fiscale complessiva del 55%. Con una percentuale di prelievo così elevata, per poter celebrare il “Tax freedom day” bisogna pazientemente attendere luglio inoltrato; solo allora, appunto, i contribuenti avranno terminato di lavorare per l’Erario.
Dopo oltre sei mesi trascorsi ad adoperarsi per le fameliche casse dello Stato, i benefici dell’occupazione cominceranno finalmente ad affluire nelle depredate tasche dei contribuenti. Ovviamente si tratta di una valutazione astratta, poiché è impensabile immaginare che si possa resistere 200 giorni senza consumare reddito per se stessi e per la propria famiglia. Una pressione fiscale del 55% concretamente significa che, in un anno, tramite prelievi sui redditi, sui consumi, su specifici servizi richiesti dai cittadini e su tributi della più svariata natura, lo Stato mediamente porta via più della metà degli utili conseguiti. È un’imposizione esagerata che provoca, secondo Laffer, il nascere di un “effetto depressivo delle imposte stesse” e comporta “una diminuzione del gettito fiscale quando si supera l’aliquota ottimale”. Questa teoria non è mai stata dimostrata scientificamente e non gode di grande seguito, tuttavia è innegabile che un’elevata tassazione provoca una contrazione dei consumi che, a sua volta, determina una riduzione del gettito IVA e la perdita di entrate fiscali sui diminuiti profitti delle imprese.
Lo Stato, per coprire il calo dei proventi, ricorre all’aumento dell’imposizione sulla collettività con l’introduzione di nuovi tributi o con la maggiorazione di quelli in vigore. Per effetto dell’accresciuto prelievo, le famiglie subiscono una “perdita di utilità del reddito” equivalente a una diminuzione del benessere. Paradossalmente i lavoratori patiscono gli effetti negativi dell’eccessiva pressione fiscale e nel contempo sono, a causa della riduzione dei consumi, loro stessi la cagione dell’aumento impositivo. Pressappoco come venir castigati con nuove tasse perché non si guadagna abbastanza da poter pagare quelle già esistenti. Naturalmente, con un’elevata imposizione fiscale a subire la maggiore perdita di benessere sono le fasce più deboli, le quali, a parere degli irremovibili oppositori dello stato liberale, vedrebbero alleviati i loro disagi solamente da un’applicazione in termini utilitaristici della ripartizione delle imposte.
Il principio si basa sul presupposto che il sacrificio causato dal prelievo sui redditi debba essere uguale per tutti. Questo criterio di distribuzione del carico fiscale prevede tre varianti e, in particolare, “l’ugual sacrificio marginale” esaspera la progressività dell’imposta fino a comportare l’esenzione assoluta per i redditi più bassi e un prelievo pressoché totale per quelli più alti. Un vero disastro. Si registrerebbe un crollo della produzione e dell’occupazione perché non ci sarebbe nessun incentivo a oltrepassare la soglia del reddito minimo; si verificherebbe, tornando al “Tax freedom day”, che i ricchi (molto meno ricchi) lavorerebbero quasi sempre e solo per lo Stato, mentre i più deboli resterebbero senza occupazione. Non è, quindi, la ripartizione delle imposte, bensì l’eccessivo carico impositivo ad essere la causa della perdita del benessere per una larga fascia di cittadini. Ma, se l’aumento della pressione fiscale, come abbiamo visto, causa effetti negativi sia per i lavoratori, sia per le imprese e non produce vantaggi nemmeno allo stesso soggetto impositore, una riduzione dei tributi porterebbe, al contrario, beneficio alle aziende e alla collettività senza recar danno allo Stato.
Andrebbe a verificarsi una situazione economica nella quale sarebbe “possibile accrescere il benessere di un soggetto senza diminuire quello di un altro”. Prendendo spunto e adattando convenientemente il criterio di compensazione di Kaldor-Hicks, si potrebbe affermare che: se chi fosse avvantaggiato del benessere ricompensasse adeguatamente chi ne venisse danneggiato, si avrebbe che “il danneggiato non sarebbe più tale e pertanto sarebbe diventato indifferente allo spostamento”. Gli avvantaggiati si identificherebbero nei contribuenti e nelle imprese che ricevono una riduzione del carico fiscale; da svantaggiato partirebbe lo Stato che, però, sarebbe a breve scadenza (per effetto del conseguente rialzo dei consumi) ricompensato dalle maggiori entrate sulle accresciute transazioni e con l’aumento delle imposte dirette derivanti dall’incremento dell’occupazione. A loro volta lavoratori e imprese ne trarrebbero ancora altro beneficio, rispettivamente, proprio dalla crescita dell’occupazione e dallo sviluppo delle vendite. Non sarebbe male se il provvedimento fosse accompagnato da una riduzione del fabbisogno statale ottenuta assottigliando i costi della politica e diminuendo gli interessi sul debito pubblico.
Salvatore Carrano
27 agosto 2012