L’educazione è un’amorevole prepotenza, tanto meno mite quanto più esercitata da persone care. Ha inizio subito dopo la nascita quando, genitori e nonni, nell’impazienza di cogliere un qualsiasi precoce segno del neonato, lo colmano di ogni possibile attenzione già limitandogli la facoltà del libero e spontaneo apprendimento percettivo. Vezzeggiativi, storpiature linguistiche, suoni dolci e sussurrati, tenere carezze, circondano ogni istante della vita del lattante. L’apprensione della famiglia protegge e previene ogni potenziale inconveniente; l’accettazione dell’infante è totale: gesti, espressioni, fonemi, sono una scoperta e vengono accolti dagli stretti congiunti come le più gratificanti delle soddisfazioni. L’estasi non dura molto; già verso il primo anno di vita del bambino, i genitori manifestano le prime delusioni: “Dovrebbe essere più alto”, “Ancora non si regge in piedi”, “Conosce pochissime paroline”. Esternazioni simili diventano sempre più frequenti da parte dei familiari; il piccoletto ne percepisce gli stati d’animo, probabilmente soffre per aver, senza colpa, provocato un’incomprensibile insoddisfazione, ma non è in grado di reagire, forse piange o si incapriccia e di certo matura. Arriva il tempo delle aspettative e i figli ricevono i primi assaggi delle frustrazioni dei genitori. Il  fiabesco  avvenire e il futuro da sicuro protagonista trovano ancora il pargoletto indifferente; egli non ne capisce le finalità, semplicemente asseconda le illusioni dei parenti e impara a trarre convenienza dall’essere consenziente.

Il primo giorno di scuola è un evento memorabile. Lindi grembiuli, ravvivati da fiocchi colorati, delimitano faccine smarrite e meste. C’è tanta gente all’ingresso, ma non è una festa, anzi, sembrano tutti inquieti e preoccupati. All’ora stabilita i timorosi fanciulli vengono affidati a delle compite figure che li conducono all’interno dell’edificio; la successiva chiusura del portone saluta definitivamente il monopolio dell’educazione esercitato dalla famiglia. D’ora in avanti, lentamente, la Scuola avrà il compito di trasformare delle acerbe e delicate creature in progrediti esseri sociali.

Le famiglie però non staranno a guardare, diverranno esigenti e inflessibili con il rendimento scolastico dei propri giovani e l’amorevole prepotenza, muterà in un’ostinata pretesa che i figli siano bravi a scuola. E se i dieci non arrivano, «Se vanno male a scuola, o semplicemente non così bene come noi pretendiamo, subito innalziamo tra noi e loro la barriera del malcontento costante; prendiamo con loro il tono di voce imbronciato e piagnucoloso di chi lamenta un’offesa. Allora i nostri figli, tediati, s’allontanano da noi. Oppure li assecondiamo nelle loro proteste contro i maestri che non li hanno capiti, ci atteggiamo, insieme con loro, a vittime d’una ingiustizia. E ogni giorno correggiamo i compiti, anzi ci sediamo accanto a loro quando fanno i compiti, studiamo con loro le lezioni. In verità la scuola dovrebbe essere fin dal principio, per un ragazzo, la prima battaglia da affrontare da solo, senza di noi; fin dal principio dovrebbe essere chiaro che quello è un suo campo di battaglia, dove noi non possiamo dargli che un soccorso del tutto occasionale e irrisorio. E se là subisce ingiustizie o viene incompreso, è necessario lasciargli intendere che non c’è nulla di strano, perché nella vita dobbiamo aspettarci di essere continuamente incompresi e misconosciuti, e di essere vittime d’ingiustizia (…) È falso che essi abbiano il dovere, di fronte a noi d’esser bravi a scuola e di dare allo studio il meglio del loro ingegno. Il loro dovere di fronte a noi è puramente quello, visto che li abbiamo avviati agli studi, di andare avanti”.»

Il passo riportato svela, senza possibili fraintendimenti, quanto un pertinace e superbo orgoglio, sia, ahimè per sua natura, facilmente incline ad amplificare l’incomunicabilità tra due differenti generazioni. Soffermandosi sulla citazione, è altresì fin troppo agevole capacitarsi come un’eccessiva protezione da parte dei familiari, possa condurre, specie in caso di risultati non conformi alle attese, a un rassegnato e lamentoso vittimismo dell’allievo.

La Scuola, nell’assumere il compito dell’educazione dei fanciulli, dovrebbe promuovere la diffusione,  tra le famiglie degli alunni di prima elementare, delle bellissime e autorevoli parole di N. Ginzburg; se i genitori si sforzassero di ascoltarne i sapienti ammonimenti, gli studenti, nel percorrere il faticoso cammino della formazione, ne trarrebbero il beneficio della serenità e dell’autostima. Alle famiglie che pretendono dai propri ragazzi il successo ad ogni costo e dalla scuola la convalida delle “soddisfazioni al proprio orgoglio”, bisognerebbe partecipare la più straordinaria, concreta e realistica definizione di formazione scolastica: “Nulla che possa ipotecare il futuro; una semplice offerta di strumenti, fra i quali è possibile sceglierne uno di cui giovarsi domani”.  La Scuola non può e non deve andare oltre.

Salvatore Carrano

18 settembre 2012