Se il lavoro fosse un diritto, potrebbe esistere solamente la disoccupazione volontaria perché la facoltà (o la pretesa) del beneficiario sarebbe tutelata per legge. Ne è esempio il diritto di voto: si può scegliere di non esprimerlo ma, agli aventi diritto, appunto, non può essere negata la facoltà di esercitarlo.

Considerandolo un dovere, il lavoro sarebbe una costrizione imposta per legge alla quale nessun componente della popolazione attiva potrebbe sottrarsi. In Italia si contano più tre milioni di disoccupati, se il lavoro fosse un dovere, dovrebbero essere tutti condannati per il mancato rispetto di un obbligo di legge. Non mi risulta che i Media abbiano mai riportato fatti di cronaca  riguardanti persone arrestate per essersi rifiutate di accettare un lavoro; abbondano però le notizie di disperati che hanno compiuto gesti estremi per aver perso l’occupazione.

Purtroppo, quasi dappertutto nel mondo, il lavoro non è ancora un dovere né tanto meno è un diritto e per ora è di certo una necessità che fornisce i mezzi monetari indispensabili per il sostentamento individuale.

Il lavoro, tuttavia, non è solo un’esigenza privata e la componente personale, seppur vitale, è minima cosa a confronto con l’aspetto sociale. Difatti, se individualmente il lavoro è l’occupazione retribuita che consente il sostentamento della persona, per uno Stato, esso è l’applicazione delle qualità fisiche e intellettuali rivolte a ottenere un bene, materiale o immateriale, di utilità generale. Quando in un supermercato o in un negozio specializzato si riesce a trovare tutto quello che si cerca e perfino quello che non si pensava potesse esistere, vuol dire che qualcuno ci ha pensato e lo ha prodotto, non tanto per se stesso,  ma per renderlo disponibile ai potenziali interessati.


In una società semplice, priva di ruoli professionali particolarmente qualificati, ogni membro della comunità esercita in base all’età, al sesso, alle attitudini o all’ingegno una mansione definita e necessaria alla preservazione della stessa collettività. Nelle società evolute, la complessità del sistema produttivo e l’enorme varietà di bisogni secondari generati dall’accrescimento del benessere, hanno originato ruoli lavorativi tra i più originali e impensabili. Consulenti di ogni categoria, organizzatori di eventi, esperti in pubbliche relazioni, addetti ai call center e tanto altro che apparentemente sembra poco o nulla avere a che fare con i modelli lavorativi presenti fino a qualche decennio fa nelle economie capitalistiche.


Tuttavia, queste nuove occupazioni hanno rimpiazzato solo in parte l’enorme perdita di posti di lavoro causata dal processo che Umberto Galimberti definisce un incubo: “È evidente che più la società si fa tecnologica, più si riducono i posti di lavoro. E paradossalmente quello che è sempre stato il sogno più antico dell’uomo: la liberazione dal lavoro, si sta trasformando in un incubo”. E l’incubo ha una natura economica che ha creato, con l’avvento dei distributori automatici e degli shop center, esuberi di commessi, impiegati e di lavoratori nel piccolo dettaglio. Per ogni lavoro creato in uno shop center, secondo il sociologo De Masi, se ne distruggono sette.
Il progresso tecnologico tende a ridurre al minimo sia il lavoro fisico e sia quello intellettuale ripetitivo dell’essere umano pur, nello stesso tempo, aumentandone l’efficienza. Gli esperti l’hanno definita “jobless grouth”: la crescita senza lavoro perché la produzione aumenta e il lavoro umano decresce. Negli ultimi cento anni in Italia il numero di ore lavorative è calato del 28,5% mentre la produttività è aumentata di tredici volte. Crolla l’occupazione nei settori tradizionali e i settori emergenti non riescono ad assorbire gli esuberi creati dalla trasformazione da una società industriale, di operai e impiegati, a una società post industriale, di lavoratori impegnati nell’intrattenimento, turismo, cultura, formazione, cura del benessere. Ne consegue un incremento della disoccupazione che riduce la disponibilità di spesa delle famiglie.   
Aumenta la ricchezza prodotta dalla nazione e cala il benessere degli abitanti che la compongono. Se non fosse accaduto che negli ultimi tre anni si sono perse 500 mila imprese, ci sarebbero gli aspetti per diagnosticare una controrivoluzione: i mezzi di produzione che espropriano il lavoro alla popolazione attiva per aumentare i profitti degli imprenditori. E invece non solo lavoratori senza mezzi di sostentamento, ma tante difficoltà economiche anche tra gli imprenditori costretti a chiudere numerose piccole aziende che producevano quei beni destinati principalmente al consumo degli stessi lavoratori allontanati dal processo produttivo. In molti casi i licenziamenti sono stati l’ovvia conseguenza di una chiusura dell’impresa per il drastico calo delle vendite.


Intanto però la produzione, pur impiegando meno lavoro umano, comunque aumenta e genera un allarmante segnale di ristrettezze: in Italia si produce quello che gli italiani non possono comprare. E così, mentre l’italiano medio compra oltre il dovuto “orientale” trascurando a malincuore la qualità pur di restare in una fascia di prezzo alla portata della propria mortificante disponibilità, Cina, Malesia, Corea, Taiwan crescono più della Germania e si godono il meglio del made in Italy contraccambiando la qualità importata con prodotti di massa, dozzinali e non sempre garantiti dall’assenza di sostanze nocive alla salute. I Paesi citati, e altri senza problemi di crescita, evidentemente non risentono degli effetti negativi della “jobless grouth”, anzi ne traggono vantaggi economici e miglioramento di benessere.


In Italia è mancato «l’uso del potere dello Stato volto a favorire l’adattamento della forza lavoro ai continui cambiamenti del mercato e a mantenere la popolazione non lavorativa», semmai si è pensato a conservare i benefici acquisiti di alcune categorie sociali e a sostenere modelli produttivi obsoleti. Da decenni, una politica lenta, conservatrice, impreparata nonché maldisposta ad accogliere l’evoluzione delle conoscenze scientifiche e tecnologiche, non ha saputo prendersi a cuore i settori emergenti che avrebbero dovuto assorbire gli esuberi creati dal declino della civiltà industriale.

Salvatore Carrano

27 marzo 2014