Il capitale umano di una persona è quell’insieme di conoscenze, abilità, competenze ed esperienze acquisite allo scopo di raggiungere dei traguardi sociali ed economici. Migliorare la propria formazione per conseguire redditi più elevati o per trovare più agevolmente un’occupazione, equivale a investire nel capitale umano.
Per gli economisti, è l’istruzione l’investimento principale nel capitale umano e, confrontando l’eventuale maggior reddito percepito dopo aver aumentato il livello di istruzione con i costi sostenuti per ottenerne l’aumento, si può ricavare una valutazione contabile del rendimento privato di tale investimento.
Secondo i dati Ocse, in gran parte dei paesi più sviluppati, i lavoratori in possesso di una laurea guadagnano almeno il 50% in più rispetto agli occupati privi di un titolo di studio universitario. Le differenze salariali tra diplomati e possessori della sola licenza media sono meno rilevanti, ma comunque del 15-20% a vantaggio del livello di istruzione più elevato.
Utilizzare, però, unicamente lo scarto salariale per misurare la redditività dell’investimento nell’istruzione, è piuttosto riduttivo perché non tiene conto dei benefici derivanti dalle maggiori opportunità occupazionali. Contemporaneamente, nella stima dei costi sostenuti per aumentare il livello d’istruzione, occorre considerare non solamente le spese sostenute per l’acquisto dei libri, tasse scolastiche, trasporti o affitti, ma anche i redditi che si sarebbero potuti percepire se il tempo dedicato alla formazione fosse stato utilizzato per lavorare.
Da uno studio condotto dalla Banca d’Italia nel 2009, il tasso di rendimento privato dell’istruzione, calcolato tenendo conto dei costi addizionali diretti e indiretti imputabili alla formazione nonché del flusso di guadagni netti generati dal maggior livello di istruzione, è, su scala nazionale, il 9%; più di qualsiasi allettante titolo di stato e prossimo a un investimento azionario ad alto rischio.
È pur vero che l’obiettivo prioritario di chi spende nella formazione è il conseguimento di redditi monetari futuri, tuttavia, l’investimento nell’istruzione non è sempre collegato al solo scopo del miglioramento economico. Spendere per istruirsi può avere delle motivazioni psicologiche e sociali. Quando l’istruzione rientra tra le soddisfazioni di un bisogno, i costi sostenuti per elevarne il grado devono essere considerati consumo perché l’acquisizione di nuove cognizioni intellettuali procura compiacimento, magari prestigio sociale, ma non produce, o almeno non si prefigge lo scopo precipuo di conseguire redditi monetari futuri.
Se individualmente la scelta di aumentare il proprio livello di istruzione può essere fatta senza tener conto di un giovamento concreto, l’investimento pubblico nel capitale umano deve opportunamente restituire un congruo profitto in termini di crescita sociale ed economica per l’intera collettività. E ciò puntualmente avviene nei paesi più industrializzati, ma non in Italia negli ultimi tempi, tant’è che la crescita è ferma e le condizioni di benessere sociale tendono al peggioramento.
Un’insufficiente crescita economica tiene bassi i salari, produce disoccupazione, aggrava il rapporto debito/Pil e non giova al saldo della Bilancia commerciale: genera in definitiva le tipiche condizioni di un paese povero. E l’Italia ne mostra i segni, di un Paese povero, perché è incapace di elaborare strategie e soluzioni innovative per invertire l’inarrestabile sottovalutato processo di decadimento economico e sociale.
Enrico Moretti, italiano di talento valorizzato negli Usa, ha scritto, secondo la rivista Forbes, il libro di economia più importante del 2013: “La nuova geografia del lavoro”. Nel saggio, il giovane docente di Berkeley, sostiene che “il nuovo lavoro nasce dove ci sono le idee” e “ogni nuovo posto di lavoro in aziende d’avanguardia, ne genera altri 5 in settori più tradizionali”. Moretti, inoltre, è convinto che i mali economici dell’Italia derivino dal non aver sviluppato il settore dell’innovazione.
Così, mentre negli USA, ma anche in Germania e Gran Bretagna, imprese innovative che si occupano di biotech, informatica, robotica, tecnologie ambientali, nuovi materiali o ancora altri settori all’avanguardia, producono crescita occupazionale e risollevano l’economia dalla recessione, in Italia l’innovazione arranca perché la fuga dei cervelli e la marginale attenzione riservata dai governi alla Scuola hanno impoverito il capitale umano.
Con un significato più ampio, per capitale umano si può intendere anche il complesso delle risorse umane qualificate che, attraverso la ricerca e la sperimentazione, contribuiscono al progresso tecnico e scientifico creando nuovi oggetti, strumenti o prodotti. Quando poco di nuovo si crea, è evidente che il valore del capitale umano non è competitivo con i paesi più evoluti che puntano sull’innovazione.
Forse che nella Patria di Leonardo e Galileo non nascono più persone con capacità e doti intellettuali rilevanti? I talenti nascono sempre e comunque, in ogni paese. In Italia però non si coltivano, piuttosto, così come per la malerba, ci si disturba della loro comparsa. Ecco perché i cervelli cercano in altri lidi il terreno fertile dove crescere rigogliosi e per lì produrre i preziosi frutti dell’ingegno. Qui nella Penisola ne arrivano anche tanti di immigrati, ma non i più valenti.
D’altronde i meglio qualificati, potendo scegliere dove espatriare, perché dovrebbero trasferirsi in un Paese che trascura la valorizzazione del capitale umano e perfino congeda i suoi figli più geniali?
Salvatore Carrano
28 febbraio 2014