Stefano, da Carla e Gildo a vendemmiare il nebbiolo, stanco della fatica e indispettito per la mancata partecipazione dei giovani, afferma: “Certo che un mondo dove i vecchi lavorano e i giovani dormono, prima non si era mai visto”. La frase è tratta da “Gli sdraiati” di Michele Serra e mi offre lo spunto per esporre qualche riflessione sul lavoro giovanile.
Il tasso di disoccupazione degli italiani in età compresa dai 15 a 24 anni è del 44,2%. Il conteggio viene effettuato escludendo i 4,4 milioni di soggetti inattivi che, essendo impegnati negli studi, non sono alla ricerca di un lavoro. Se fossero considerati tutti gli appartenenti a quella fascia d’età, si potrebbe rilevare che solo uno su dieci lavora, 8 non sono interessati a farlo e, almeno stando ai dati diffusi dall’Istat, solo un 10% è in cerca d’occupazione.
Su settecentodiecimila giovani che lavorano più di 5 milioni sono inattivi o disoccupati. Se però ci si chiede quanti giovani si formano o vanno a scuola perché non riescono a trovare lavoro, viene il lecito dubbio che probabilmente molti degli inattivi si lascerebbero tentare da un’occupazione – qualora ne trovassero una – e tralascerebbero la continuazione degli studi. In tal caso per questi soggetti l’università, i masters o i corsi di specializzazione, sarebbero un’area di parcheggio, un ripiego o un orgoglioso rifiuto allo stato di disoccupato. E quando ci si demoralizza perché pur avendo speso tanto in formazione non si riesce comunque a lavorare, allora si diventa NEET. Difatti secondo i dati Eurostat 2013 un giovane italiano su quattro è nella condizione “Not in Education, Employment, or Training”: non studia, non ha un lavoro e non è impegnato in percorsi formativi.
Che senso ha, però, misurare la disoccupazione dei quindicenni quando c’è l’obbligo di andare a scuola fino a 16 anni? Probabilmente sarebbe più interessante conoscere quanti giovani terminati gli studi e la formazione non riescono a trovare un lavoro e, sulla base dei risultati ottenuti, stabilire le cause del problema disoccupazione e porvi in seguito rimedio.
Se l’ingresso nel mondo del lavoro fosse previsto a 18 anni, dopo aver terminato la formazione obbligatoria, dai conteggi bisognerebbe escludere circa 2,5 milioni di giovani. Ne resterebbero allora tre milioni e mezzo e su questo numero bisognerebbe concentrare gli sforzi affinché studi e formazione fossero già finalizzati al lavoro e potrebbero, quindi, al termine del percorso, garantire la certezza dell’occupazione.
La disoccupazione è un dramma, ma anche lavorare tardi non fa meno male: nuoce gravemente alla società nel suo complesso perché la invecchia attraverso il calo delle nascite. L’età media delle donne alla nascita dei figli supera i trent’anni e quasi un bambino su dieci è partorito da una madre ultraquarantenne. Una coppia decide di avere un figlio quando pensa di potergli garantire perlomeno il mantenimento, ma se un minimo di tranquillità economica arriva in prossimità dei quarant’anni, allora i figli arrivano tardi e ne arrivano pochi: appena 1,4 figli per donna. E non è solo la precarietà economica a scoraggiare le giovani coppie dal mettere al mondo dei figli. Spesso la difficoltà di trovare un lavoro spinge i giovani, piuttosto che a mettere su famiglia, a specializzarsi, ad accrescere la formazione e a studiare all’estero per perfezionare una lingua. Le donne poi temono di essere licenziate o di essere scavalcate nella progressione di carriera in caso di assenza per maternità. Insomma un figlio te lo devi poter permettere e devi potergli offrire quello che, se tutto va bene, cominci ad avere solo con l’età matura.
Iniziare a lavorare oltre la gioventù, inoltre, impoverisce il capitale umano perché non consente di utilizzare le eccellenze per la ricerca, l’innovazione e la creatività. Quando hai conseguito una laurea, teorie, concetti e astrazioni non bastano per divenire scopritore, inventore o scienziato. Ciò che sai lo devi applicare per ideare e progettare, lavorando e facendo ricerca. Una formazione dapprima articolata ma generica che diventa, con la pratica e la sperimentazione, ricca di competenze, esperienza e capacità. Per le imprese assumere deve essere un investimento da utilizzare al meglio e il più al lungo possibile; nello stesso tempo per i giovani la formazione acquisita lavorando diventa un salvacondotto che garantisce la stabilità occupazionale. Quale imprenditore si sognerebbe mai di licenziare una risorsa umana che rappresenta un valore aggiunto per la sua azienda?
Una riforma del lavoro mirata a invogliare le assunzioni soprattutto dei giovani è indispensabile, tuttavia da sola non basta per abbattere la disoccupazione. La formazione scolastica deve obbligatoriamente concorrere a preparare adeguatamente i suoi studenti e deve farlo nei tempi giusti e nei contenuti in sintonia con l’evoluzione della società. Chissà, forse tanti giovani “dormono” o sono NEET per le scelte politiche fatte dagli stessi “Stefano” che adesso li accusano di “dormire”. E se proprio non dovesse essere così, facendoli lavorare appena si sentono pronti, i giovani non avrebbero alibi.
Salvatore Carrano
20 ottobre 2014