Se agli italiani che godono di buona salute venisse chiesto di esprimere un desiderio, tanti probabilmente chiederebbero di diventare ricchi. Come dar loro torto, poter disporre di beni e denari in misura molto maggiore di quanto si necessita normalmente fa gola a tutti. La ricchezza è rassicurante, ordinata, giusta e perbene. Alla ricchezza si associano “bella vita”, tranquillità e spensieratezza; inoltre quando si dispone dell’abbondanza economica, è facile essere tolleranti e propensi al perdono politico se non altro perché, male che vada, molti dei disagi derivanti dall’inefficienza della gestione pubblica possono essere colmati ricorrendo alle strutture private a pagamento.

Eppure la ricchezza individuale non basta, da sola, a elevare la qualità della vita.  “La ricchezza non fa la felicità”: è un luogo comune al quale l’economista R. Easterlin, con il suo paradosso, ha cercato di dare rigore scientifico.

I ricchi non sono più felici dei poveri e la felicità non dipende dall’aumento del reddito individuale: questa in sintesi la conclusione del lavoro di Easterlin. Si può essere d’accordo? Non è davvero spontaneo convenire, soprattutto per le famiglie più colpite dagli effetti della crisi; comunque, ammesso che la ricchezza non porti felicità, quando è collettiva, la ricchezza, procura sicuro benessere e occorre ricordarlo: il mancato benessere economico è, insieme ai problemi di salute, una delle principali cause di infelicità.

Secondo l’autore citato, quando aumenta il reddito personale, la felicità individuale evidenzia nel breve periodo un segnale di crescita, ma poi nel medio/lungo periodo tende a diminuire disegnando un percorso simile a una U capovolta. Soffermandosi con una certa attenzione sulla prima fase, si nota che la felicità aumenta insieme al reddito e, supponendo che la crescita si verifichi in un paese sottosviluppato o colpito da grave crisi economica, tale fase avrebbe una durata piuttosto lunga e garantirebbe un benessere sociale davvero rilevante soprattutto se paragonato al livello di partenza.

Dopo comincerebbe la discesa. Il dopo sarebbe da intendere quando la totalità della popolazione, o buona parte di essa, avesse raggiunto e consolidato un livello di risorse economiche necessario a condurre una vita decorosa e conveniente per sé e per i propri familiari.

È abbastanza logico supporre che l’effetto dell’aumento del reddito concorra in modo determinante a elevare la felicità, ma oltre una certa soglia, il reddito, per essere aumentato assorbe tempo e risorse che vengono sottratti alla cura di se stessi e alle attività relazionali. Spuntano, quindi, conflitti interiori, ansie da prestazioni e difficoltà nell’intrattenere rapporti umani. Il reddito magari continua a salire, ma gli effetti negativi legati al suo aumento incidono pesantemente sulla felicità, che precipita fino al completamento del percorso a U capovolta.

Stabilire il punto critico oltre il quale la felicità decresce, non è certo cosa agevole e ritengo sia addirittura impossibile determinarlo a livello individuale. Se però il benessere collettivo fosse talmente appagante da rendere dissuasivo un eccesso di impegno per incrementare il reddito individuale, allora il tracciato non tenderebbe a scendere e si appiattirebbe (disegnando una L capovolta) assestandosi nel ragionevole equilibrio tra benessere e felicità.

Se il mio vicino è ricco, ma lavora anche di domenica per mantenere e incrementare la sua ricchezza, mentre io, non ricco e libero da preoccupazioni economiche il fine settimana lo trascorro piacevolmente con le persone care, dedicandomi ai miei hobbies, o semplicemente oziando, il mio vicino non sarebbe certo invidiato, semmai compatito. Qualora, invece, io fossi tormentato dalla necessità di risparmiare su tutto o ricercare nuove fonti di reddito per arrivare a fine mese, ebbene in tal caso: altro che compatimento!

A un’attenta e aggiornata rilettura del lavoro di Easterlin ci si rende conto che quell’analisi è straordinaria e quanto mai attuale nonostante siano trascorsi circa quarant’anni dalla sua pubblicazione, semplicemente bisogna utilizzarla principalmente nella prima fase e riferirla all’ottenimento del benessere collettivo; la felicità individuale scaturirebbe come logica conseguenza.

Nei paesi poveri l’incremento del reddito è uno dei fattori principali per l’aumento della felicità. Senza adeguati mezzi di sostentamento si è di certo poveri nonché infelici e il primo passo per ottenere un minimo di felicità è il raggiungimento di un benessere economico generalizzato. Si vive meglio in Danimarca o in Libia? Per la risposta basta riflettere sui percorsi migratori. Se i barconi prendono, con tanti rischi, la direzione dell’Europa è evidente che in Africa si vive male e l’Occidente rappresenta la terra della speranza e della felicità. Ma quanti migranti lascerebbero la loro patria se avessero da vivere decentemente? Pochi, e sarebbe una scelta non legata alla necessità di sopravvivenza. I paesi ricchi sono per la maggior parte economie di mercato e “sono macchine straordinariamente efficienti nella produzione della ricchezza, ma assai poco capaci di distribuirla equamente tra coloro che hanno preso parte al processo della sua creazione.”

Una maggiore attenzione all’equità e al miglioramento del benessere interno lordo garantirebbero quella dissuasione all’incremento del reddito ad ogni costo, permettendo di bloccare la felicità all’aspettativa di reddito senza che i “beni relazionali”, adeguatamente considerati, possano incidere in negativo sulla felicità.

Salvatore Carrano

8 ottobre 2013