Un’associazione che difende ad ogni costo gli interessi professionali collettivi di una categoria e intraprende una lotta per farla progredire senza nessun altro scopo, ottiene l’esatto opposto del risultato voluto. Non si può pretendere di accrescere i benefici di una classe lavoratrice senza che essa ne abbia merito o sostanza; una rivendicazione deve essere suffragata dalla promessa o dalla prospettiva che, qualora fosse accolta, porterebbe un miglioramento del servizio offerto alla collettività, solo in tal caso l’opinione pubblica si mostrerebbe favorevole e consenziente ad accettare le richieste avanzate dai sindacati.

Se ad esempio un’associazione che difende gli interessi dei medici rivendicasse un aumento stipendiale obbligandosi a garantire un servizio sanitario efficiente e puntuale tanto da eliminare il ricorso alle prestazioni a pagamento, è ovvio che i pazienti, essendo i primi a esserne avvantaggiati, approverebbero e sosterrebbero il miglioramento retributivo degli operatori sanitari. Ecco l’altro scopo: la liceità della causa subordinata all’utilità che produce per la collettività. Si può mai pretendere che venga accettato di buon grado un miglioramento delle condizioni lavorative di una categoria sapendo che l’intera comunità ne subisce un danno? Assolutamente no. Ancor meno si può imporre alla cittadinanza il disagio di uno sciopero per attirare l’attenzione sulle esigenze dei lavoratori che un sindacato tutela; si rischia, e solitamente succede, di raccogliere solo tanti improperi e maledizioni senza nessun risultato utile per i difesi. E in ogni caso, quand’anche si riuscisse a strappare qualche beneficio, la concessione, se non risulta legittimata dal consenso degli utenti, genera conflitti, dispute e dissapori.

Sembra che i sindacati siano maestri nel mettere tutti contro tutti. Nello stesso tempo, però, sono comunque pronti (almeno all’apparenza) a tutelare gli assistiti che abbiano da rivendicare o recriminare. Suona come una lucida strategia: dapprima si rende ostile alla collettività una categoria avanzando richieste sperequate e avversative, successivamente se ne difendono accanitamente, a spada tratta, le rivendicazioni. Se una categoria si vedesse accettata qualche richiesta, il merito sarebbe (anche giustamente) dei sindacati; gli assistiti ne godrebbero i vantaggi pur rendendosi invisi per la loro prepotenza.

Se i frutti delle pretese fossero molto inferiori alle aspettative, o addirittura nulli, le associazioni sindacali si mostrerebbero dispiaciute sostenendo, a loro discolpa, che non c’erano le condizioni affinché le richieste venissero accolte.

Negli ultimi decenni l’abolizione della scala mobile, la flessibilità nel lavoro, la riforma delle pensioni e le recenti modifiche all’articolo 18, hanno comportato, per i lavoratori, una graduale e significativa perdita delle importanti conquiste ottenute in tanti anni di infiammate lotte sindacali. Perché bisogna convenire che i sindacati, in passato, hanno contribuito, e anche in modo determinante, a migliorare le condizioni di lavoro, in particolare delle classi più deboli. Se lo sfruttamento dei lavoratori – almeno quello legalizzato – non esiste (esisteva?) più, lo si deve principalmente alle lotte sindacali. Roba d’altri tempi, seppur non tanto lontani. I contratti a partita IVA sono parenti stretti di uno sfruttamento legalizzato e la precarietà del lavoro è un tormento sociale che preclude ogni forma di avvenire programmato. Come mai i sindacati non hanno previsto (e impedito) gli effetti rovinosi, soprattutto per l’occupazione giovanile, derivanti dall’approvazione di alcuni provvedimenti legislativi?

I sindacati sono stati per tanti anni la parte buona dei partiti politici, essi hanno garantito la “pace sociale” mediando le esigenze dei lavoratori con le concessioni che i partiti erano disposti ad accordare. Inoltre, l’accoglimento delle pretese avanzate dagli assistiti era generalmente condizionato da un ritorno in termini di voti per la formazione politica con la quale l’associazione era in stretto legame. La crisi dei partiti ha significato una perdita d’identità e d’intenti dei sindacati che, privi del rassicurante riferimento politico, si sono orientati al “mutuo soccorso”, a diventare un centro di servizi per gli iscritti.

 Sempre meno unite, le associazioni sindacali si sono indebolite perdendo rappresentatività e potere nelle contrattazioni e hanno rinunciato all’obiettivo di un’equa distribuzione della ricchezza. I sindacati non hanno neanche saputo adeguarsi ai cambiamenti di una società in continua evoluzione e hanno continuato a pretendere con le vertenze e le contese quando ormai c’era poco da conquistare.  C’è stato il tempo della ricompensa per merito, i sindacati non l’hanno colto e adesso sono prigionieri del loro stesso operato: quando avanzano pretese per una categoria, “tutti gli altri” si oppongono fermamente e li screditano. Naturalmente una tale situazione favorisce, nelle contrattazioni, i poteri forti e penalizza i lavoratori che un’associazione sindacale dovrebbe tutelare e far progredire in armonia con gli interessi dell’intera collettività e per la soddisfazione dell’utenza.

Salvatore Carrano

8 novembre 2012