Adam Smith, nella sua opera più importante, così tratteggia il libero mercato e gli scambi commerciali: “Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio, che noi ci aspettiamo la nostra cena, ma dal loro rispetto nei confronti del loro stesso interesse. Noi ci rivolgiamo, non alla loro umanità ma al loro amor proprio, e non parliamo loro delle nostre necessità ma della loro convenienza. Nessuno tranne un mendicante sceglie di dipendere principalmente dalla benevolenza dei suoi concittadini”. Volete voi fare degli italiani un popolo di accattoni? Evidentemente sì. Il passo è breve, basta ridurre ulteriormente le già misere disponibilità finanziarie di tante famiglie e  i giochi sono fatti.

Ecco trasformata la nostra trepida Italia in un paese da terzo mondo, in uno stato dove l’osservazione di  Winston Churchill “il vizio intrinseco del capitalismo è la divisione ineguale delle benedizioni; la virtù intrinseca del socialismo è l’eguale condivisione della miseria”, diventerebbe: “il vizio intrinseco del capitalismo è la spartizione delle benedizioni” tra pochi e l’eguale condivisione della miseria” tra tanti. Il peggio delle due dottrine condensate in un unico sistema, quello capitalistico appunto, che amplificherebbe i suoi peccati originali: impoverimento delle classi più deboli e conseguenti tensioni sociali allarmanti.

Ma lo Statista inglese ebbe ancora a considerare: “è stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora”, come a dire che se il liberalismo ha i suoi difetti, le altre forme di governo sono assolutamente da evitare. La Storia gli ha dato ragione. I regimi comunisti sono crollati, senza atti violenti sono stati abbattuti insieme al muro tra i due blocchi; da quel momento, spogli di ogni rimpianto, i redenti popoli  si adoperano per la conquista di una matura democrazia. Meno pacificamente e con qualche difficoltà in più, sono da poco caduti anche alcuni feroci sistemi autoritari.

Noi che invece il bene della libertà lo possediamo già, che facciamo? Scriteriatamente rischiamo di buttarlo via a causa dei metodi trafficoni e sconsiderati finora utilizzati per la “spartizione delle benedizioni”. Eppure ci vorrebbe così poco, basterebbe unire i principi dell’economia con il fine della politica per sanare una delle principali storture del liberismo classico.  Mi spiego meglio: in che modo nessuno dipende, per la cena, “dalla benevolenza dei propri concittadini”? Semplice, quando tutti hanno di che pagarsi il pasto, ossia quando l’esigenza di soddisfare un bisogno da una parte, genera un interesse e una convenienza economica dall’altra; tecnicamente una banale compravendita: la cessione di un bene verso il corrispettivo di un prezzo. La quantità di moneta necessaria a pagare il bene (prezzo) proviene dal lavoro di almeno uno dei componenti della famiglia, oppure da ricchezze in precedenza accumulate (risparmi). Naturalmente la propensione a “recarsi in bottega” da parte delle famiglie è direttamente proporzionale alla disponibilità di risorse monetarie. Ne consegue che quanto maggiore sarà il reddito familiare tanto più le “botteghe” saranno piene. Ma se persino in tempo di saldi i negozi sono poco frequentati, per logica, e purtroppo realmente, le tasche di molti italiani sono vuote. 

In un’economia di libero mercato lo stato dovrebbe intervenire il minimo possibile nel regolamento degli scambi, mentre la politica ha l’obbligo di garantire che le negoziazioni di interesse possano avvenire.  In che modo? Accettando senza riserve la considerazione di Churchill sulla democrazia e controllando il “vizio intrinseco del capitalismo”. Difatti, agendo con responsabilità e probità sulla “divisione ineguale” della ricchezza, un governo illuminato tutela i redditi minimi e, senza perseguire l’uguaglianza o l’appiattimento, evita che la cena possa dipendere “dalla benevolenza dei concittadini”. Ognuno avrebbe il necessario per soddisfare i bisogni individuali primari. Inoltre, le “botteghe”, perseguendo i loro interessi, alimenterebbero ”quell’ordine spontaneo” e “farebbero progredire la società più efficacemente di quando intendano davvero farla progredire”.

La politica è bene che si tenga distante dal pianificare la produzione occupandosi giudiziosamente della distribuzione delle risorse. Il governo in carica punta molto sui tagli alla spesa, ma queste sforbiciate producono effetti positivi solamente se, insieme alla diminuzione del fabbisogno statale, aumenta anche la disponibilità reddituale delle famiglie. In parole povere se i risparmi alla spesa, direttamente (aumento degli stipendi) o indirettamente (sostegno alla crescita e occupazione) finiscono nelle tasche degli italiani più bisognosi, si verifica un aumento dei consumi e di conseguenza, anche un incremento delle entrate fiscali ( Irpef sugli stipendi e l’IVA sulle cessioni di beni e prestazioni di servizi). Essendo in tema colgo l’occasione per un interrogativo: ma di vigorosa potatura agli enormi costi della politica? Neanche a parlarne vero? Eppure si potrebbe realizzare un gran bel risparmio.

Salvatore Carrano 16 luglio 2012