Quando un popolo è fortemente preoccupato per le precarie condizioni in cui è stato ridotto da una spaventosa crisi economica, alla fine si sente attratto da un partito o da un movimento che denuncia i colpevoli del malessere e ne promette la loro estromissione. Se poi una formazione politica diffonde e infonde anche la speranza di una ripresa, allora l’attrazione si traduce in un ragguardevole consenso elettorale.

La distribuzione dei suffragi alle prossime consultazioni è, almeno  per ora, solo un’opinabile previsione, supponendo, però, che il responso delle urne possa portare al governo delle forze politiche emergenti, quali potranno essere le novità nella gestione della macchina statale? In che misura i nuovi eletti andranno a miscelare il rapporto tra “sapere specialistico” e “prassi politica”?

La prima novità riguarderà le persone: facce nuove occuperanno i banchi delle due camere e la curiosità avrà, all’inizio, il sopravvento sulla sostanza e sui fatti. A breve, però, soddisfatta la bramosia di indiscrezioni, i cittadini pretenderanno che le promesse elettorali diventino realtà. Alcuni provvedimenti  riguardanti il drastico taglio del numero dei parlamentari e la riduzione del costo della politica dovrebbero avere un cammino legislativo agevole perché sono, di fatto, già definiti e richiedono solo i numeri per essere approvati. Ancor più semplice dovrebbe risultare licenziare le tante abolizioni e i numerosi impedimenti previsti in uno dei programmi della più attendibile novità politica.

Ritengo che sia già tanto se si riesce a ridurre i costi della politica e “rottamare” il maggior numero possibile di parlamentari. Per quanto mi riguarda, addebito all’enorme quantità e alla pessima qualità (la stragrande maggioranza) dei politici tutti i mali dell’Italia. Tuttavia, quando si governa ci si trova a dover affrontare difficoltà ben più complesse di un’abolizione di un ente o di un riordino delle spese. Penso a due (ma ce ne sono diversi altri) problemi che in questo momento affliggono l’Italia e in qualche modo si intersecano: debito pubblico e rilancio dell’economia. Voglio pensare che non ci si illuda di ridurre il debito pubblico con qualche decina di miliardi di euro derivanti dal pur auspicabile risparmio sui costi della politica, né tanto meno si può pensare che i ricavi originati dalla vendita dei beni dello Stato rappresentino una cifra significativa per la riduzione di 2000 miliardi di debito: gli ottanta miliardi previsti bastano appena per pagare un anno di interessi ai tassi correnti. E l’anno dopo?

Si ventila il ritorno alla lira e un ripudio larvato del debito. Lo Stato rimborserebbe la parte (più della metà) delle obbligazioni detenute da soggetti nazionali con l’emissione di nuova moneta. Con ogni probabilità ne conseguirebbe una spinta inflazionistica e la lira si deprezzerebbe considerevolmente nei confronti delle valute estere. I creditori stranieri, nella migliore delle ipotesi, sarebbero disposti al rinnovo del prestito in dollari o altra valuta forte e, almeno all’inizio, i tassi di interesse sul debito subirebbero un preoccupante rialzo. Se il ritorno alla lira per alcuni sostenitori  è la soluzione per uscire dalla crisi in quanto una valuta debole accresce la competitività internazionale, favorisce le esportazioni, fa aumentare consumi e incrementa l’occupazione, per altri studiosi, la rinuncia all’euro equivarrebbe ad una disgrazia perché porterebbe l’Italia al default. Il ritorno alla lira, insomma, se dovesse esserci, rientrerebbe tra quelle decisioni che andrebbero prese con estrema ponderatezza.

I nuovi eletti, nel caso fossero indecisi sulle misure da adottare, potrebbero magari avvalersi della consulenza di esperti. Ma non è forse questo un governo di tecnici? A che pro trasformarli in intermediari e consulenti del dominio quando direttamente non sono riusciti a risollevare il Paese? Perché mai, avendo illuso e deluso come governanti, gli esperti dovrebbero risultare preziosi come consulenti?

Nessuna alleanza con la politica del passato e senza l’ausilio della razionale burocrazia dei tecnici; dovranno essere autosufficienti i nuovi parlamentari! Anche quando si tratterà di prendere decisioni cruciali che possono condizionare (nel bene e nel male) il futuro di una nazione. Loro, i nuovi governanti, potranno essere meno specialisti, con ogni probabilità commetteranno degli errori e forse saranno costretti a produrre una semplificazione dell’attività politica e amministrativa, ma, così come hanno corso da soli alle elezioni, se ne avranno ricevuto mandato, dovranno essere autonomi nel governare.

D’altronde, quando in una competizione elettorale il nuovo e l’incerto prevalgono sul consolidato e il certo,  nelle intenzioni dei votanti traspare, prima di ogni cosa, la precisa volontà di non voler essere più rappresentati dai parlamentari in carica.

Non è proprio il massimo in una democrazia evoluta votare per un “congedo forzoso” in alternativa ad una scelta di programma e di fiducia, ma, se è pur vero che “i cittadini hanno i politici che si meritano”, non si capisce cosa possa esserci di tanto eversivo e malsano che i parlamentari in carica possano ricevere dagli elettori un trattamento di benservito.

Salvatore Carrano

18 dicembre 2012