Ho sempre pensato che i nati tra il secondo e terzo decennio del 900 avessero prodotto, nell’arco della loro esistenza, la maggiore ricchezza in Italia. Ebbene, mi devo ricredere. Non perché tale generazione abbia fatto poco: al contrario! È stata la classe d’età che ha elevato così tanto le condizioni di benessere dei discendenti diretti, da farmi ritenere che avesse prodotto il periodo più prospero della storia nazionale. D’altronde passare dalla miseria totale ad abitare in confortevoli abitazioni, a possedere un mezzo di locomozione motorizzato, a potersi permettere di mandare i propri figli all’università o a scoprire le vacanze nelle due stagioni è stato un balzo di benessere economico straordinario. Ed effettivamente nel raffronto tra la ricchezza ereditata alla nascita e quella consegnata al congedo lavorativo, i nati anni venti-trenta, sono stati davvero strepitosi: mai prima d’allora l’esistenza di un essere umano aveva fatto registrare tanto sviluppo economico e sociale.

Al termine del secondo conflitto mondiale l’Italia era distrutta e non solo dai bombardamenti: arretrata nella produzione industriale e agricola, sfinita da un’interminabile  guerra e con una situazione politica ancora tutta da inventare. Quindici anni dopo era un altro Paese: faceva registrare la piena occupazione e si gridava al boom economico.

Quando il popolo di una Nazione non ha niente, deve rifornirsi di tutti i beni indispensabili a sostenere un tenore di vita dignitoso. I consumi per l’acquisto di elettrodomestici, automobili e arredi di ogni genere fanno salire il Pil, creano occupazione e aumentano la ricchezza delle famiglie. Sembra una considerazione di lapalissiana evidenza, dopo la devastazione e le ristrettezze causate dalla guerra, si poteva solo migliorare, non era possibile andare in peggio. Ma non è proprio così. Del resto se si pensa a come hanno vissuto i paesi dell’ex blocco sovietico fino alla caduta del muro oppure ai paesi del Centroamerica che, pur ricchissimi di risorse naturali, stentano tuttora a raggiungere condizioni dignitose di benessere, è evidente che alla generazione del dopoguerra bisogna riconoscerle il grande merito di aver trasformato un Paese povero e arretrato in una potenza economica al pari delle nazioni più industrializzate del Pianeta. Quell’Italia però era pur sempre prudente e misurata nei consumi perché le privazioni e gli stenti originati dell’estenuante conflitto facevano apparire licenzioso spendere senza una pur minima giustificazione di bisogno. Occorreva aspettare la nuova classe di età, cresciuta nell’agiatezza, senza patimenti e quindi immune dai sensi di colpa dello spreco, per elevare il consumo da bisogno a capriccio. La capacità di spesa cominciava allora a definire uno status sociale e la possibilità di poter acquistare  e cambiare di frequente  alcuni beni dava la sensazione di essere “arrivati”.

Si spendeva anche per ostentare e dimostrare di aver raggiunto il successo nella carriera o negli affari. Era la filosofia dello yuppismo che, a partire dagli anni ottanta, contagiava i trenta-quarantenni dell’epoca. Il progresso tecnologico, poi, ci metteva del suo con alcune scoperte nel campo della comunicazione e dell’informatica. I cellulari e i computer in primis avevano lo stesso effetto delle lavatrici e dei frigoriferi del dopoguerra: essere alla portata di tutti e per di più dopo poco erano da sostituire con l’ultima versione perché, essendo prodotti ad alto contenuto tecnologico, diventavano in breve tempo obsoleti e inadeguati all’immagine che si voleva offrire. Oltretutto con tali beni scompariva l’esigenza della riparazione in quanto il superamento tecnologico diventava più rapido dell’invecchiamento materiale. Un eccesso di consumi creava occupazione, incrementava i redditi e produceva grandi liquidità che le famiglie destinavano anche all’acquisto di beni durevoli al riparo dall’inflazione. Il  “mattone”  prendeva a tirare e i prezzi delle case nelle città crescevano a dismisura trascinati dall’aumento delle richieste. Si costruiva ovviamente molto, spesso solo per soddisfare una domanda speculativa e purtroppo senza tanto rispetto per l’ambiente e il territorio.

Chi proprio non ce la faceva a raggiungere l’agiatezza, ma non voleva rinunciare agli effetti che essa avrebbe prodotto, tentava di arrampicarsi nel mondo degli affari senza farsi tanti scrupoli con l’etica e i principi morali. Nascevano così faccendieri e traffichini che inquinavano il mondo della politica, della finanza e dell’industria fino ai livelli più periferici dell’intero Paese. Prendeva corpo un’economia sommersa che creava ulteriore ricchezza e contagiava o seduceva pure chi fosse stato  assunto e già retribuito per svolgere mansioni di pubblica utilità.

I nati a “belle epoque” conclusa tirarono su benissimo il Paese accontentandosi  di un benessere costumato e concreto; i loro figli hanno elevato il tenore di vita ereditato, ma per ottenere questo risultato hanno spregiudicatamente ipotecato il futuro dei discendenti. Adesso i giovani, in virtù dei risparmi e delle ricchezze accumulate dai genitori, possono permettersi di fronteggiare le difficoltà economiche derivanti dall’eccessiva disoccupazione e dalla precarietà lavorativa, ma sulle loro spalle grava il peso materiale del debito pubblico, il disfacimento morale della società e la stagnazione economica. Non oso pensare al futuro delle nuove generazioni prive di quel sostegno parentale in un Paese enormemente indebitato, che è incapace di creare concrete prospettive di sviluppo economico e tende a strutturarsi con un sistema sociale sempre più avaro di assistenza, tutele e garanzie.

Salvatore Carrano

11 dicembre 2014