Un imprenditore è colui “che esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi”. In cambio di un adeguato profitto, l’imprenditore immette sul mercato ogni genere di prodotto o servizio in modo da poter soddisfare, magari dopo averlo provocato, qualsiasi bisogno lecito.  

Che mondo sarebbe senza imprenditori? Credo misero, poco ospitale e deprimente. Non ho mai avuto modo di recarmi in un paese dell’ex blocco sovietico, ma trovandomi a parlare con alcuni amici che negli anni 70-80 avevano visitato la Russia o altri paesi comunisti, tutti descrivevano la carenza esagerata di qualsiasi bene da comprare nei negozi. Le autorità definivano lo stato di benessere materiale e sociale della collettività pianificando, su quella scelta, produzione e servizi per il suo raggiungimento. L’individualità era ignorata completamente, ogni singolo era un elemento facente parte di una struttura definita e la distribuzione della ricchezza si fondava sul principio “…. a ognuno secondo i propri bisogni”, i quali bisogni, erano rigidamente individuati dai prominenti funzionari del PCUS. Non doveva poi essere tanta la ricchezza che si distribuiva, visto che l’URSS, la seconda potenza economica nel mondo, produceva beni di prima necessità ma non riusciva a sfamare tutti i suoi abitanti.

Dalla Russia, insieme alla proprietà privata, sparirono gli imprenditori e sia la produzione agricola sia quella industriale diventarono monopolio esclusivo delle aziende statali. Tuttavia, tanto era avanzato e curato lo stadio di sviluppo dell’industria  bellica, spaziale e dei beni di produzione in genere, quanto trascurata era l’attenzione riservata all’arretrata fabbricazione e coltivazione dei beni di consumo; anche di quelli essenziali. Così la storica rivale degli USA, offriva alla sua popolazione un’esistenza prossima all’indigenza; da paese di terzo mondo.

Ma i funzionari di partito non se la passavano poi così male, godevano di privilegi e  poteri. Poteri di veto e approvazione: ogni incarico di rilievo e di responsabilità in qualsiasi ambito della società doveva avere il benestare del PCUS. Il merito era subordinato alla condiscendenza e al conformismo; chi aveva le qualità ma peccava in ossequio non entrava a far parte della nomenklatura. Forse che da noi si raggiunge una posizione apicale in un settore pubblico senza l’appoggio politico? Nemmeno a pensarci. Le nomine per incarichi di vertice, in ogni settore, dipendono dalla benevolenza del politico di turno. La sola differenza con l’ex URSS è nella lottizzazione. In Italia le cariche strategiche e di potere se le dividono le varie formazioni politiche in base alla forza elettorale; nella Russia comunista il partito prendeva tutto. Non c’è poi tanta diversità tra casta e nomenklatura.

Eppure il nostro passa per un Paese democratico: esiste la libertà di stampa, è tutelata la proprietà privata ed è consentita l’attività d’impresa. Ma, se è vero che ognuno, nel rispetto delle regole, può scrivere quello che vuole, è anche indubbio che la stampa che conta non è indipendente, i mass media sono un potere al servizio dei potenti. Pure in questo caso, rispetto ai paesi dell’ex blocco comunista, la pluralità dell’informazione (comunque asservita) è garantita dalla spartizione tra le forze politiche.

La proprietà privata comincia a diventare un diritto elitario, se lo possono permettere solo i privilegiati. Per le nuove generazioni una prima casa è il sogno di una vita con l’incubo del mutuo pressoché perenne.  La villetta al mare o la baita in montagna non rientrano più tra i beni della classe media, IMU, Tares e tasse per l’acquisto li rendono proibitivi; nei paesi dell’ex Unione Sovietica c’erano le dacie riservate a chi occupava un ruolo di rilievo nel partito o all’elite della nomenklatura.

Il “Made in Italy” è la sola reale condizione a ricordarci che viviamo in un paese capitalistico. Quattro milioni di imprese che tra mille difficoltà continuano a procacciare e produrre ricchezza, a rappresentare una confortante alternativa all’imbarazzante immagine di un Paese etichettato come terra di mafia e di bunga bunga. Certo che devono proprio essere bravi gli imprenditori italiani se sono riusciti a sopravvivere con una classe politica totalmente incapace e inefficiente che per decenni si è preoccupata unicamente di ritagliarsi un ruolo di privilegio nella società.

“Finalmente anche noi abbiamo una banca”: probabilmente non c’è niente di illecito in una frase del genere, ma i partiti non devono perseguire il controllo delle banche. La politica si deve occupare solo dell’organizzazione e dell’amministrazione dello stato, quando invade altri ambiti della società, lo fa per traviare e foraggiarsi. Le banche spagnole (e adesso anche il Monte dei Paschi) si sono trovate in gravi difficoltà finanziarie perché nella loro amministrazione c’erano troppe nomine politiche.

Da fonte Istat le imprese nel 2009 erano circa 4,5 milioni, secondo alcuni osservatori ora sono  4 milioni; in tre anni si sono perse 500 mila imprese, solo per colpa della crisi? Guarda caso, però, la desertificazione industriale del Nord-Est ha coinciso con il rafforzamento della presenza sul territorio di un movimento politico locale che, nato da una protesta, è diventato un partito di potere. Non si è mai visto un modello economico di tipo centralizzato che prevedesse l’impresa privata, ma il pluralismo, politico e dell’informazione, da soli, evidentemente non sono una garanzia contro un regime, che non sarà totalitario bensì partitocratico: pur sempre con tendenze oppressive e autoritarie.

Salvatore Carrano

29 gennaio 2013