L’11 settembre 2007 la Commissione Europea approva un programma operativo per la regione Campania destinando 3,4 miliardi (raddoppiabili mediante i cofinanziamenti nazionali) per la sua realizzazione. L’importo, per il periodo 2007-2013, è pari all’11,8% dei contributi totali erogati all’Italia. Le finalità del programma prevedono la promozione dello sviluppo attraverso il miglioramento della qualità della vita, l’aumento dell’occupazione e l’incremento della competitività della regione nel contesto nazionale, europeo e mediterraneo.
La Campania, insieme alla Basilicata, Calabria, Puglia e Sicilia, rientra nell’area convergenza che ha beneficiato del 59% dei fondi POR complessivi. Tutte le altre regioni italiane, comprese nell’Obiettivo competitività, hanno diviso la restante dotazione finanziaria. L’Obiettivo convergenza è rivolto a “promuovere lo sviluppo e l’adeguamento strutturale nelle regioni che presentano ritardi nello sviluppo”, mentre l’obiettivo competitività mira a “favorire la riconversione economica e sociale delle zone con difficoltà strutturali”. Ai 37 miliardi di euro destinati ai POR (Programmi operativi regionali), vanno aggiunti altri 12,5 miliardi per i programmi operativi nazionali e interregionali (PON e POIN): totale 49,5 miliardi di euro da spendere per lo sviluppo e la competitività.
Da allora sono trascorsi quasi sette anni e, nonostante ci siano ancora diciotto mesi di tempo per completare la spesa delle somme erogate, è possibile tracciare un primo bilancio sulle ricadute dei programmi operativi finanziati all’Italia dall’Unione Europea.
Lo sviluppo identifica il passaggio progressivo verso forme di organizzazioni sociali ed economiche superiori rispetto a quelle precedenti. Avendo dei valori di paragone è più facile una misurazione dello sviluppo economico e così, quei paesi (o quelle aree) che fanno registrare una crescita economica più bassa, per ottenere sviluppo devono colmare il divario rispetto alle nazioni che fanno registrare una crescita più alta. L’accumulazione del capitale fisico, il progresso tecnico e la formazione di capitale umano sono i fattori che gli studiosi ritengono possano maggiormente avere effetti positivi sulla crescita.
L’accumulazione del capitale è la scelta di investire in mezzi produttivi. Gli imprenditori quando prevedono di poter ottenere un soddisfacente margine di profitto e hanno la possibilità di reperire a condizioni vantaggiose i fondi da investire, sono invogliati a prendere tale decisione. Inoltre, se le aree scelte per gli insediamenti produttivi sono adeguatamente urbanizzate per garantire l’insediamento o l’ampliamento delle unità produttive, gli imprenditori peccherebbero addirittura di grave negligenza a non raccogliere l’opportunità di realizzare facili profitti.
La Bce ha tagliato il tasso ufficiale di riferimento portandolo al minimo storico e le imprese, almeno quando offrono accettabili garanzie di solvibilità, possono beneficiare di costi per interessi mai prima d’ora così a buon mercato. Unici ostacoli agli investimenti e, quindi, al rilancio del processo di accumulazione, sono la debole domanda del mercato interno e le infrastrutture inadeguate ad accogliere gli insediamenti produttivi. Gli investimenti pubblici in attività indirettamente produttive, ossia la realizzazione di quell’insieme di opere pubbliche che sono indispensabili allo sviluppo economico-industriale di un paese, contribuiscono in modo determinante ad attrarre gli investimenti privati in attività produttive e nello stesso tempo, attraverso un incremento dell’occupazione, creano reddito e domanda.
Dal 2007 crescita, sviluppo, occupazione, competitività industriale e consumi sono andati in caduta libera e tuttora non si intravedono segni certi di ripresa. Evidentemente la colpa è della crisi economica, ma se gli aiuti dell’Europa fossero stati spesi per produrre ricchezza e occupazione, forse quei 49,5 miliardi avrebbero reso meno pesanti i sacrifici degli italiani.
Purtroppo, “l’utilizzo dei fondi Ue, soprattutto nel Sud Italia è stato motore di sprechi e ritardi, le regioni non riescono a spendere. Lo Stato centrale è in affanno e la Commissione puntualmente minaccia tagli”. E ancora: “Nessuno dei paesi del sud Europa riesce a spendere questi soldi perché non ci sono amministrazioni locali adeguate, opere inutili che non producono ricchezza. Non possono essere a fondo perduto ma produrre qualcosa. Invece servono spesso solo per alimentare logiche clientelari”.
Marco Cobianchi, autore del libro Mani Bucate, sostiene che “In Italia i sussidi servono per sopperire e compensare gli extracosti che un Paese presenta nei confronti dell’industria, che sono la criminalità e la carenza di infrastrutture. Noi usiamo i sussidi per compensarli, la Germania, invece, per l’innovazione. È per questo che siamo sempre perdenti. (..) lo Stato eroga finanziamenti senza risolvere i problemi”. E i problemi più urgenti sono la disoccupazione e la scarsa competitività che persistono e si aggravano nonostante l’Europa eroghi degli aiuti finalizzati proprio alla risoluzione di quei problemi.
In questo momento i fondi europei, specie al Sud, dovrebbero essere spesi vincolandoli alla creazione di nuovi posti di lavoro, per nient’altro. E invece aiuti di stato che premiano le imprese peggiori, finanziamenti alle sale cinematografiche che proiettano film in 3D, mezzo milione di euro per il festival del cous cous in Sicilia e poco meno della metà per una sacra del peperoncino in Calabria, cospicui sostegni a qualche pellicola per incrementare il turismo in regioni poco visitate e tanti altri micro-sussidi di importo modesto che, però sommati, formano tante risorse monetarie sottratte allo sviluppo e all’innovazione.
Salvatore Carrano
17 giugno 2014