Preoccuparsi della tutela di coloro che hanno perso il posto di lavoro, è un proposito meritevole e non può che essere condiviso: tuttavia tale intendimento, per avere successo, necessita del supporto indispensabile della ripresa economica.
Se lo Stato sostenta chi ha perso l’occupazione con un assegno, si può ipotizzare che il costo per il sussidio è inversamente proporzionale all’aumento dell’occupazione; più tempo si resta senza trovare un nuovo impiego e più gli oneri per lo Stato aumentano. È altresì evidente che se non si creano nuovi posti di lavoro i licenziati hanno scarse possibilità di rientrare tra la forza lavoro occupata e in tal caso il costo per la collettività potrebbe diventare insostenibile (stime autorevoli parlano di trenta miliardi di euro l’anno con l’attuale tasso di disoccupazione).
Quando la crescita è bassa o negativa, la disoccupazione aumenta; per contro, nelle fasi espansive il Pil cresce e la disoccupazione diminuisce. Pil e occupazione dipendono dalla domanda aggregata, ossia dalla somma dei consumi, degli investimenti, della spesa governativa e delle esportazioni nette. Per far crescere il Pil e aumentare l’occupazione occorre, quindi, far salire la domanda aggregata agendo su uno, alcuni o tutti gli addendi che la compongono.
In condizioni simili alla Norvegia, terra ricca di risorse energetiche, basterebbe aumentare le esportazioni di petrolio e gas per accrescere la domanda aggregata. Il sottosuolo dell’Italia non offre, purtroppo, risorse che consentono, attraverso la vendita ai paesi stranieri, di toccare da sole oltre il 25% del Pil. Né tanto meno si può pensare di esportare il “Made in Italy” in misura così notevole da poter vivere di rendita. È già un gran risultato mantenere il saldo import-export in attivo ed è quasi impossibile fare meglio perché competere con economie dove la manodopera costa fino a otto volte di meno rispetto a quella italiana, rende ardua l’acquisizione di ulteriori rilevanti quote di mercato estere in qualsiasi settore produttivo. Scartando la possibilità di un ragguardevole incremento delle esportazioni e ipotizzando importazioni stabili ai livelli attuali, per aumentare la domanda aggregata si dovrebbe far leva sui consumi, sugli investimenti e sulla spesa governativa.
L’aumento dei consumi si riscontra quando cresce la disponibilità di spesa dei cittadini. Redditi individuali più alti, o anche piena occupazione nel nucleo familiare e magari perfino un prelievo fiscale più contenuto, permettono alle famiglie di avere a disposizione maggiori entrate da destinare ai consumi. Ma la maggiore disponibilità di spesa e l’aumento dei consumi sono tra di loro direttamente concatenati in quanto l’una è la causa dell’altro e viceversa. Un circolo vizioso che andrebbe rotto con un evento che, invertendo una delle due situazioni e per effetto dell’interazione, arrivi a modificare (in positivo) di conseguenza anche l’altro.
Mantenendo bassi i tassi di finanziamento sui prestiti, le aziende dovrebbero essere invogliate a investire. Eppure il costo del denaro è già al minimo storico e ciò nonostante la domanda di credito delle imprese continua a calare e secondo gli studi della Confindustria, calerà ancora per tutto il 2014 perché le aziende, a causa della contrazione dei consumi, sono costrette quanto meno a ridurre la produzione o addirittura a cessare l’attività per ricavi di vendite insufficienti persino a raggiungere il punto di equilibrio con i costi. Un aumento degli investimenti fa diminuire la disoccupazione, presumibilmente giova alla crescita dei salari e di sicuro spinge verso l’alto i consumi. Le crescite fungono da moltiplicatore degli stessi investimenti e perciò, se invece i consumi calano, si verifica un effetto riduttore. Non c’è tasso basso che tenga, quando i volumi di vendita delle imprese non consentono al risultato economico nemmeno di entrare nell’area dei profitti, il basso costo dei finanziamenti, pur prossimo allo zero, diventa ininfluente per la risalita della domanda di credito.
Incrementando adeguatamente e proficuamente la spesa governativa, lo Stato può far crescere la domanda aggregata nonché Pil e occupazione che da essa dipendono. Investimenti pubblici da utilizzare per la messa in sicurezza del territorio continuamente martoriato da dissesti idrogeologici, oppure per la realizzazione di nuove infrastrutture o ancora nell’ampliamento dei trasporti metropolitani ed extraurbani, forniscono un decisivo impulso alla ripresa economica perché creano nuovi posti di lavoro, accrescono la disponibilità di spesa delle famiglie e contribuiscono in modo determinante all’incremento dei consumi. Le imprese, per far fronte all’aumento della domanda di beni, sono incentivate a espandersi e per farlo, sono obbligate ad assumere personale e a chiedere finanziamenti. In questo caso, “uno per tutti”: un solo componente della domanda aggregata trascina con sé, facendoli lievitare, tutti gli altri fattori che pur non hanno subito nessuna attenzione.
Certo, se lo Stato spende, il disavanzo si aggrava, cresce il debito pubblico e i conti di bilancio peggiorano, ma un investimento è destinato a produrre dei frutti che potranno essere raccolti (e utilizzati per la restituzione del debito pubblico) quando la crisi economica sarà superata e si starà attraversando una fase espansiva. Oltre tutto non esiste altra strada, in tempo di crisi lo Stato deve intervenire per equilibrare la domanda di beni che altrimenti calerebbe eccessivamente, il disavanzo si aggraverebbe comunque per effetto delle minori entrate per imposte e il debito pubblico, anche se in tendenza alla diminuzione, peggiorerebbe in ogni caso nel raffronto con il Pil.
Salvatore Carrano
3 febbraio 2014