In Italia il potere politico, soprattutto negli ultimi trent’anni, si è dedicato principalmente alla cura dei propri interessi specifici in opposizione a chi, dalla politica, si aspettava una realizzazione degli interessi comuni.

Il potere politico si è infiltrato in ogni ambito della società, dapprima diffondendosi e poi contaminando amministrazioni, organismi ed enti di qualsivoglia natura. Non c’è primario ospedaliero elevato all’incarico senza il beneplacito di un deputato regionale, nessun manager a dirigere un’azienda pubblica in assenza della decisiva sollecitudine di un compiacente personaggio politico e nemmeno a parlarne di finanziamenti pubblici alle imprese in mancanza dei favori di un influente esponente di partito. Il potere politico “è stato in grado di fare ciò che ha voluto, anche se gli altri si opponevano”.  In qualche modo si è instaurato un dominio legittimato che contemplava sì l’opposizione, ma la svuotava di ogni efficacia e la faceva anzi apparire antiprogressista e di intralcio alla modernizzazione dello Stato. Perfino le coscienze, ultimo baluardo della privata moralità, hanno abbandonato la necessaria obiettività  e si sono degradate a scagionare il compromesso e l’intrallazzo in cambio del tornaconto. Brutto affare, quando in un Paese l’immoralità e la corruzione diventano costume, la società, logora e priva di valori etici, diventa altamente vulnerabile alle forme di governo dispotiche. E allora il potere “può fare ciò che vuole” senza che ci sia alcuno che vi si possa opporre. L’abbiamo scampata bella, senza il solido legame con l’Unione Europea quasi sicuramente l’Italia avrebbe rivissuto, in meno di un secolo, una seconda epoca di totalitarismo. Proposte come il voto delegato ai capigruppo e la richiesta di maggiori poteri per il presidente del consiglio, d’altronde, lasciano pochi dubbi sugli intendimenti di un personaggio che non ammette ostacoli alla sua volontà.

Secondo T. Parsons il potere politico “è la capacità di esercitare certe funzioni a vantaggio del sistema sociale considerato nel suo insieme”. Contiene più democrazia questa definizione, che tutti i programmi elettorali dei partiti della seconda repubblica. Certo l’individuazione delle funzioni da esercitare è prioritaria, eppure per niente difficile e complicata  perché la politica ha il compito precipuo di orientare il percorso evolutivo di uno Stato tenendo conto del grado di civiltà raggiunto dai cittadini. Nello stesso tempo la politica deve perseguire e incoraggiare, con delle specifiche disposizioni, forme di evoluzione tendenti all’azzeramento dei conflitti sociali, al rispetto delle diversità e all’equa distribuzione della ricchezza. Naturalmente uno Stato si occupa anche della difesa e della tutela del territorio nazionale, dello sviluppo economico, della formazione, della giustizia e quant’altro possa riguardare, appunto, l’organizzazione del “sistema sociale considerato nel suo insieme”.

Quante leggi approvate dal Parlamento negli ultimi decenni hanno rappresentato un “vantaggio per il sistema sociale considerato nel suo insieme”? Nessuna. L’ultima legge elettorale ha probabilmente semplificato la composizione delle liste alle formazioni politiche, tuttavia ha sbilanciato la sovranità limitando ai cittadini la sola quantità dei voti da assegnare ad un partito o a una coalizione. La riforma del sistema pensionistico ha consentito il raggiungimento di una “solida sostenibilità finanziaria collegando l’uscita dall’attività lavorativa alla speranza di vita”, nondimeno ha trasformato in una chimera la pensione per i giovani; inoltre, lasciando intonse le pensioni d’oro, ne ha accresciuto le disparità con quelle percepite dalla classe lavoratrice. I tagli sulla formazione scolastica hanno prodotto qualche giovamento alle casse dello Stato, siamo però sicuri che la “razionalizzazione” non abbia cagionato anche uno scadimento della già non eccellente scuola pubblica magari a vantaggio di quella privata che, non solo non ha subito tagli, ma ha ricevuto un aumento delle risorse a disposizione? La riforma del mercato del lavoro, concedendo alle imprese una maggiore flessibilità in uscita, avrebbe dovuto invogliare le aziende ad assumere con più facilità. Non è andata così: la disoccupazione, e soprattutto quella giovanile, non solo non è diminuita, è risalita, anzi, a livelli prossimi al 40%; e i giovani che un lavoro ce l’hanno, ne soffrono la precarietà e la pochezza della retribuzione. Gli elettori si sono espressi contro il finanziamento pubblico ai partiti, ciò nonostante i parlamentari sfrontatamente si approvano, più o meno legalmente, tuttora ogni genere di rimborso.

L’elenco potrebbe continuare: la musica non cambierebbe. Il Parlamento ha votato soltanto norme che non rispettano il principio del “vantaggio per il sistema sociale nel suo insieme”, ma è ancora più sconcertante constatare che tutte le leggi approvate pendono, in termini di convenienza, unicamente dalla parte dei poteri forti e della classe politica.

Stento a credere che la prossima consultazione elettorale restituisca una maggioranza che possa praticare l’equilibrio nella votazione dei provvedimenti, che conferisca dignità sociale ed economica a tutte le categorie sociali e riesca a ridurre il numero nonché i privilegi dei parlamentari; comunque, sarebbe almeno auspicabile che una formazione politica in campagna elettorale ne desse garanzia di piena attuazione: ci sarebbe almeno la speranza.

Salvatore Carrano

2 gennaio 2013