Ci hanno insegnato che la famiglia è l’elemento fondamentale sul quale uno stato basa la propria organizzazione sociale ed economica all’interno di un territorio. Essa è composta generalmente da individui legati tra di loro da un rapporto di convivenza e/o di stretta parentela, che in base alle loro possibilità e alle loro condizioni, contribuiscono al procacciamento di quanto si rende necessario al soddisfacimento degli innumerevoli bisogni del nucleo sociale. Attraverso i consumi, le famiglie, restituiscono alle aziende parte del reddito percepito come remunerazione del lavoro svolto e la quota eccedente rappresenta un risparmio che, investito, viene utilizzato dalle banche per finanziare il debito pubblico, l’attività d’impresa e il consumo. Negli ultimi decenni, e soprattutto da parte degli istituti di credito statunitensi, è invalsa la propensione a utilizzare i risparmi delle famiglie per investimenti, potenzialmente con rendimenti altissimi, ma con rischi, purtroppo, altrettanto spropositati.
In tempo di crisi, le banche indirizzano gli impieghi privilegiando la solvibilità del debitore e il rendimento. Quindi, dal momento che le imprese falliscono, le famiglie, già troppo indebitate, hanno redditi appena sufficienti a coprire l’essenziale e non è certo il momento adatto per investimenti ad alto rischio, agli istituti di credito non resta che utilizzare la disponibilità monetaria per finanziare il provvidenziale e conveniente debito pubblico. Ed infatti risulta che nell’anno in corso i prestiti concessi alle imprese e alle famiglie da parte delle aziende di credito sono stati meno del 20% della raccolta fondi. La banca, in una delle sue funzioni, opera da intermediaria tra chi è in eccesso di risorse finanziarie e i soggetti che utilizzano il credito per la produzione o il consumo. È un compito di notevole rilevanza economica che stimola lo sviluppo dell’attività di impresa, favorisce la crescita e produce ricchezza.
Quale funzione di sviluppo possono aver svolto le banche se solamente una minima parte della raccolta fondi è stata utilizzata per finanziare il fabbisogno delle aziende e i consumi delle famiglie? Ovviamente, ed è una delle cause della recessione, non solo il sistema economico non ha ricevuto nessun rilevante beneficio dall’attività di intermediazione bancaria, ma, addirittura imprese e consumatori hanno subito pesanti penalizzazioni sia nei costi del finanziamento che nelle difficoltà per ottenere l’affidamento (stretta creditizia). A voler assumere le difese delle banche, però, si potrebbe obiettare che esse sono delle aziende che operano nel settore del credito con lo specifico scopo di conseguire un utile. Non c’è da meravigliarsi, quindi, se, trovando svantaggioso concedere prestiti a soggetti economici potenzialmente poco solvibili, gli enti creditizi rivolgono i loro affari laddove l’operazione di intermediazione genera profitti e presenta rischi modesti di insolvenza. Troppo comodo per le banche e troppo oneroso per i tartassati contribuenti che, a suon di tributi, sono chiamati a coprire l’insopportabile costo del debito pubblico, reso magari ancora più esoso proprio per consentire la sopravvivenza degli stessi istituti di credito.
Quando un risparmiatore deposita del denaro in banca ne cede all’ente la disponibilità; in cambio riceve un compenso che in genere è commisurato al tempo di giacenza e alla consistenza dell’importo. A loro volta le aziende di credito impiegano le somme raccolte applicando alla clientela condizioni tali da coprire i costi dell’attività di intermediazione e da ricavarne un adeguato profitto.
In base ai dati diffusi dall’Abi, nell’anno 2011, le banche hanno raccolto 2.219 miliardi di euro. Il tasso passivo applicato dagli istituti di credito, sempre nell’anno citato, è oscillato da un minimo di 1,08% sui depositi ad un massimo del 2,94% sulle obbligazioni (media 2%). Il debito pubblico in Italia ammonta a 1966 miliardi, la spesa stimata per interessi nell’anno in corso è di 80,7 miliardi di euro; il tasso che ne deriva è il 4,1%.
Perché avvalersi di un costoso intermediario quando lo Stato potrebbe finanziarsi con una spesa nettamente inferiore?
Se un tale agire pone già preoccupanti interrogativi sulla gestione del debito pubblico, il prestito della Bce lascia quanto meno allibiti: 255 miliardi di euro concessi, ad un tasso dell’1%, alle banche italiane e da queste ultime interamente (o quasi) utilizzati per l’acquisto di titoli di stato con un rendimento medio non inferiore al 4%; nel caso la Banca centrale europea avesse erogato tale finanziamento allo Stato italiano, si sarebbe verificato un risparmio di circa sette miliardi in interessi.
Si tratta di vere e proprie sovvenzioni pubbliche finanziate con l’aumento dell’imposizione fiscale a carico dei contribuenti.
La crisi ha avuto origine dalle grosse perdite delle banche e poi, come per incanto, si è trasformata in una crisi del debito pubblico. Costi e conseguenze, che avrebbero dovuto gravare solamente su enti privati, finanzieri, banchieri e speculatori, sono stati trasferiti sui cittadini semplicemente utilizzando gli istituti di credito come intermediari nella copertura del debito pubblico. Un altro rospo da ingoiare: l’inevitabile (purtroppo) sostegno al sistema bancario per scongiurarne il crollo e le catastrofiche conseguenze; ma almeno non si dica che le banche italiane non ricevono aiuti.
Salvatore Carrano
2 ottobre 2012