A detta del prof. R. Ciccone un debito pubblico enorme, come lo è quello italiano, non rappresenta affatto un grave problema perché non è un debito della nazione. Per l’autore citato “il debito pubblico è un debito di una parte della collettività verso la restante parte della stessa collettività, per cui la nazione non è né più né meno indebitata per effetto dell’emissione di debito pubblico”. (Tengo a precisare che l’affermazione “il debito pubblico è un debito di una parte della collettività verso la restante parte della stessa collettività” non mi trova pienamente d’accordo perché sono convinto che il debito pubblico è un debito di tutta una collettività verso una parte della stessa collettività. Comunque, anche avvalendomi della mia opinione, la successione dei ragionamenti nel logico sviluppo dell’articolo subirebbe varianti concettuali poco rilevanti).
I titoli del debito pubblico sono parte della ricchezza del settore privato composta appunto dai prestiti concessi allo stato, dagli immobili e attrezzature industriali e dalla moneta. Ne consegue che un elevato debito dello stato produce una considerevole ricchezza privata e, quanto più il debito pubblico aumenta, tanto più la ricchezza privata cresce.
Il debito pubblico funge inoltre da moltiplicatore del risparmio perché i redditi derivanti dagli interessi sui titoli creano nuova ricchezza e ulteriore risparmio da investire. Nemmeno il debito detenuto da soggetti esteri può essere considerato un debito della nazione in quanto, secondo il prof. Ciccone, l’acquisto di titoli nazionali da parte di soggetti residenti all’estero, produce un’entrata di valuta straniera e non modifica il saldo crediti-debiti con il resto del mondo.
Soffermandosi sull’affermazione che “il debito pubblico è un debito di una parte della collettività verso la restante parte della stessa collettività” viene naturale arguire che una parte della collettività composta dai risparmiatori che possono permettersi di investire liquidità, riceve ricchezza da una restante parte della collettività che a stento riesce ad arrivare a fine mese anche a causa dell’esagerata imposizione fiscale necessaria per coprire il costo degli interessi sul debito pubblico. Davvero bel modo di contrastare la crisi e aiutare i più colpiti! Ma d’altronde non avrebbe senso che la Bce, anziché comprare titoli del debito pubblico dei paesi più indebitati per farne diminuire il rendimento, finanzi a tassi irrisori le banche che a loro volta investono le sovvenzioni in titoli di stato ricevendo, senza rischio alcuno, un compenso per interesse di almeno quattro volte superiore rispetto al costo sostenuto.
Sulla base di quanto sopra esposto, sembra essere altresì valida l’opinione del prof. Ciccone secondo la quale “non esiste un vincolo quantitativo che impedisca in assoluto la sottoscrizione di debito pubblico da parte del settore privato, in quanto la domanda di asset di quest’ultimo aumenta nella stessa misura in cui lo Stato ricorre alla spesa in deficit.” Anzi! Maggiore è il debito pubblico e più una parte della collettività diventa ricca. Se così fosse, il debito pubblico magari non sarebbe un problema per la nazione, ma contribuirebbe in modo determinante ad accrescere l’iniquità nella distribuzione della ricchezza. E difatti, con il pretesto di dover mettere a posto i conti di bilancio, si rimpinguano, penalizzando le già precarie condizioni delle classi più deboli, i portafogli di finanzieri, speculatori e avveduti risparmiatori con liquidità in eccesso.
Quando in un precedente articolo ho scritto che “i governi dei paesi europei con un debito pubblico troppo elevato subiscono il ricatto del potere finanziario che approfitta della crisi (che esso stesso ha provocato) per massimizzare i profitti dai prestiti concessi alle nazioni”, non avevo considerato che il potere finanziario e quella parte della collettività poco o niente danneggiata dalla crisi hanno un interesse in comune: far fruttare al meglio la liquidità disponibile. Al momento non è certo conveniente investire sul “mattone”, a depositare soldi in banca ci si rimette e le imprese offrono scarse garanzie di solvibilità; non resta, quindi, che la sottoscrizione dei titoli di stato. Sarà un caso che si tartassa con IMU, TUC o Service Tax l’investimento caro agli italiani in un momento in cui il debito pubblico è decisamente troppo alto? E come per incanto e oltre ogni aspettativa i “Btp Italia da Guiness dei primati: oltre 22 miliardi di euro di raccolta”. È difficile pensare a una coincidenza quando le manovre di governo orientano il flusso del risparmio verso una determinata e voluta direzione.
Se non ci fosse il debito pubblico a remunerare questa massa di liquidità, ai risparmiatori non resterebbe altra alternativa che il materasso o i beni rifugio. E intanto le imprese boccheggiano o addirittura cessano l’attività per le difficoltà che incontrano a reperire finanziamenti. Viene da pensare che l’inasprimento del credito attuato dalle banche, piuttosto che essere disincentivato o almeno compensato da funzionali misure governative, sia stato invece giustificato dagli investimenti sicuri, garantiti e perfino appetitosi dei titoli di stato.
Abbassando di un quarto di punto il tasso di riferimento del costo del denaro, il governatore Mario Draghi ha ulteriormente ridotto il prezzo che gli istituti di credito pagano quando si finanziano dalla Banca centrale o dalle altre banche. La decisione dovrebbe facilitare l’accesso al credito alle imprese, tuttavia, la maggior parte delle banche non sembra disponibile a recepire immediatamente la riduzione e difficilmente gli istituti di credito adegueranno in modo automatico il tasso sui prestiti concessi al tasso di riferimento della Bce.
Di certo però ci sarà maggiore liquidità in circolazione e la circostanza potrebbe indurre le banche ad allentare la stretta creditizia alle imprese soprattutto se le aziende, aiutate da provvedimenti governativi mirati allo sviluppo e all’aumento dei consumi, dovessero offrire maggiori garanzie di solvibilità.
Salvatore Carrano
13 novembre 2013