Mai come in questo frangente si avverte la necessità di un governo operoso e solerte nell’affrontare quegli impegni urgenti che sappiano porre un freno alla disoccupazione e dare un po’ di vigore alle magre retribuzioni; ma intanto non c’è nemmeno, il governo, e forse non verrà alla luce in questa legislatura, perché al senato mancano i numeri per votarne la fiducia.
Eppure, nonostante si presagiscano tempi particolarmente critici e incerti per la governabilità del Paese, ci sono le condizioni affinché due formazioni politiche con obiettivi compatibili possano collaborare mantenendo fede agli impegni presi in campagna elettorale senza perdere la faccia nei confronti dei propri elettori e, perché no, approvando finalmente qualche riforma di legge davvero favorevole alla gente comune.
Cosa serve al paese? Quali manovre possono restituire un po’ di benessere ai cittadini?
Urgono dei provvedimenti legislativi che liberino risorse finanziarie da destinare all’incremento della disponibilità di spesa degli italiani. Per elevare il reddito familiare si può puntare ad accrescere le entrate delle persone già occupate, oppure si aumenta il numero dei lavoratori per nucleo familiare o, ancora meglio, si fanno crescere entrambi. Con maggiore disponibilità di spesa le famiglie aumentano i consumi; le imprese di conseguenza, per far fronte all’incremento della domanda, dovranno assumere nuovi dipendenti. Si creerà così una spirale virtuosa che farà bene alla crescita e condurrà l’Italia fuori dalla crisi.
L’austerità non giova al capitalismo. Il taglio delle spese dello Stato imposto dalle recenti misure di governo ha prodotto, infatti, effetti pregiudizievoli, se non letali, alla salute di molte aziende, tanto che negli ultimi tre anni cinquecentomila imprese sono state costrette alla chiusura. Va bene ridurre il fabbisogno statale, ma è impensabile che possa avvenire a spese delle fasce di reddito più basse; il risparmio così ottenuto genera sicura recessione provocata da una brusca e considerevole contrazione dei consumi. Quando si è in uno stato di ristrettezze, si evitano gli sprechi e si agisce sulla dismisura, ma non si sottrae l’energia indispensabile al motore che fa muovere l’economia. La crisi non si combatte con le cause che la provocano e per riavere un minimo di crescita occorre incentivare i consumi.
Ed è bene ribadirlo con forza: il motore dell’economia in un paese capitalista è quella “moltitudine sociale, priva di marcate caratteristiche di classe o di ceto, contrapposta all’élite”. Se tale massa è prevalentemente in condizioni di moderata agiatezza, è equiparabile a una “classe media” che, adeguatamente provvista di capacità di spesa, consuma e fa girare l’economia. Viceversa, se la “moltitudine sociale”, in affanno di risorse finanziarie è propinqua a un “ceto povero”, i consumi calano e il motore dell’economia non riceve energia sufficiente per girare a pieno ritmo e rallenta. Un’economia lenta esercita a sua volta su se stessa un effetto riduttore che in pochi anni porta una nazione al declino.
Dalla diminuzione del costo della politica si possono reperire ragguardevoli risorse da destinare all’incremento dei redditi degli occupati e da utilizzare per gli incentivi alle imprese al fine di ridurre la disoccupazione. In Italia un milione trecentomila persone vivono di politica. Sicuramente non conducono un’esistenza da barboni e percepiscono, di media, entrate prossime ai cinquantamila euro l’anno. Dalla moltiplicazione esce una cifra enorme: 65 miliardi di euro; se ne potrebbero risparmiare più della metà. L’abolizione delle Province (o le regioni), dei Consorzi di bonifica e delle Comunità montane comporterebbe il conseguente taglio dei costi per il mantenimento degli edifici e, dal momento che i 16 palazzi romani del parlamento costano, da soli, per il loro mantenimento, 2 miliardi di euro l’anno, eliminare i costi dei 500 edifici che ospitano 260 comunità montane, 137 consorzi di bonifica e 110 province, dovrebbe far risparmiare allo Stato almeno cinque miliardi. Dal taglio degli stipendi d’oro si potrebbero ottenere economie intorno ai dieci miliardi. Chi lavora per lo Stato non si può arricchire, quindi, un tetto massimo alle retribuzioni e alle pensioni sarebbe, non solo una diminuzione di spesa, ma un segno di decoro e di equità.
Sono 50 miliardi di euro che potrebbero essere utilizzati, in parte, per un sussidio erogato agli inoccupati, disoccupati e precari iscritti presso le liste di collocamento dei Centri per l’impiego. Si tratterebbe di un reddito minimo garantito che, quantificato in settecento euro, si stima avrebbe un costo di circa dodici miliardi. La stessa somma si spenderebbe per concedere qualche centinaio di euro di aumento mensile sulle buste paga dei 3,3 milioni di dipendenti pubblici. L’altra metà dei 50 miliardi, per contrastare la perdita di posti lavoro nel privato, andrebbe destinata come sostegno alle imprese in difficoltà e come incentivi alle aziende nascenti.
Non è tutto quello che serve all’Italia, ma è il migliore inizio per una legislatura che si annuncia quanto mai in difficoltà nel promuovere un governo concorde negli intenti, innovatore nelle scelte e disponibile ad assicurare a tutte le categorie sociali, un tenore di vita progredito.
Salvatore Carrano
19 marzo 2013